Il 17 gennaio scorso Benedetto XVI ha autorizzato la pubblicazione del decreto che attribuisce a don Gnocchi il miracolo nei confronti di un elettricista sopravvisuto a un incidente sul lavoro avvenuto nell'agosto 1979.
Luisa BOVE
Era un giorno come tanti quel 17 agosto 1979 e Sperandio Aldeni, titolare della ditta artigiana di impianti elettrici, aveva dato appuntamento a Villa d’Adda, sede dell’impresa, ai suoi operai per andare insieme in pulmino alla “Cartotecnica Europea” presso la “Wosa Cec” di Orsenigo. Il programma di lavoro prevedeva la trasformazione della corrente di media tensione che forniva l’Enel (15 mila volt) in corrente normale (380 volt) per gli stabilimenti della società committente. Erano le prime ore del pomeriggio e all’improvviso andò via la corrente. «Sentii una tremenda vibrazione in tutto il corpo con una forte attrazione verso il basso e un rumore come di un terremoto, il mio corpo si è raggruppato in 40 centimetri, come una molla compressa, la fronte ha picchiato sui codoli che avevo fra i piedi… Rimasi lì credo qualche minuto aspettando la morte… sempre con la mente lucida, mi resi conto che avevo preso una scarica di 15 mila volt e ormai mi consideravo spacciato, la sedia elettrica per la pena capitale è di 6 mila volt”… Ripetevo dentro di me: “Adesso muoio, adesso muoio”. Dopo un po’ di tempo ho aperto gli occhi e mi resi conto che ci vedevo ancora, anche se mi colava il sangue dalla fronte».
Anche gli operai più lontani dalla cabina dove stava lavorando Sperandio sentirono un forte rumore e poi le grida miste a invocazioni. Firmino Brembilla che in quel momento stava nella parte sottostante la cabina dove era sceso con la sua solita pila, sentì all’improvviso dei «colpi strani» e «nello stesso istante», racconta, «vidi un bagliore accecante, come di un lampo, che illuminò la cabina». Anche Marzio, il figlio non ancora maggiorenne del titolare, lavorava nell’impresa e in quel momento stava tornando dall’officina con del materiale, improvvisamente sentì gridare.
Era la prima volta che assisteva a un incidente del genere e per di più l’infortunato era suo padre, che intanto invocava il Signore e la Madonna, urlava e chiedeva aiuto, ma «nessuno si avvicinava, perché avevano paura che fossi ancora in tensione, che trasmettessi corrente, infatti continuavo a tremare e saltare. Sembrava che la corrente non mi lasciasse più e sentivo un terribile tremolio alle gambe. Per questo cominciai a gridare: “Don Carlo, don Carlo Gnocchi, come faccio adesso senza gambe a portare in giro i tuoi ragazzi? Don Carlo, dovrò andare anch’io in giro in carrozzina come i tuoi bambini? Come faranno mia moglie, i miei figli? Don Carlo aiutami. Don Carlo aiutami”». Per la verità Aldeni gridava in dialetto: “O Signur guarda giò! Madonna! Don Gnocchi!”.
In quegli anni Sperandio era molto impegnato nel volontariato e frequentava spesso la Rotonda di Inverigo, portava in giro i ragazzi o li faceva andare la domenica presso le famiglie di Villa d’Adda per far trascorrere loro una giornata diversa. Non stupisce quindi che Aldeni, trovandosi sul punto di morire, si sia rivolto proprio a don Gnocchi, di cui tra l’altro aveva una grande devozione, sia perché era stato cappellano negli alpini (anche Sperandio era alpino), sia per la grande opera che aveva realizzato a favore dei mutilatini e non solo.
Ma torniamo all’incidente. Sperandio non percepiva il male per le ustioni alle mani e all’addome, ma gridava per il dolore alle gambe: «Mi sembrava che se abbassavo le gambe, mi si strappavano, allora supplicai Sisto di tenerle alzate mentre si aspettava l’autoambulanza e continuò a tenerle così fino a quando siamo arrivati all’ospedale». Aldeni intanto chiedeva di suo figlio. «Ero nascosto», ammette Marzio, «ma ovviamente sentivo tutto di quei momenti drammatici. Ero coperto dagli scatoloni nella visuale, perché non me la sentivo di vedere mio padre in quelle condizioni, ma seguivo tutto. Mi chiamava, ma io non riuscivo ad andare. Avevo paura. Venne un operaio a chiamarmi e mi disse che mio padre mi voleva parlare. Allora andai pieno di spavento, perché non sapevo che cosa avrei visto. Lo vidi già avvolto nella coperta sulla barella. Mio padre mi disse che andava all’ospedale, di aiutare la mamma, di prendermi cura dei miei fratelli. Non ricordo le parole precise, però sembrava un saluto, un testamento, una raccomandazione da parte di chi non avrei più visto vivo». Durante il tragitto l’infortunato chiese di essere portato agli Ospedali Riuniti di Bergamo, dove era già stato anni prima, ma fu trasportato al pronto soccorso di Erba. Lì gli fu praticata subito una prima medicazione alle parti ustionate, un elettrocardiogramma che risultò normale e anche le pulsazioni erano regolari. Vista la situazione la dottoressa di turno iniziò a telefonare negli ospedali vicini per trovare un posto e a tutti diceva: «Non possiamo tenerlo qui, è troppo grave, è in fin di vita». Dopo diversi tentativi trovò un posto alla Clinica di Ponte S. Pietro. «Sentivo che la corrente mi percorreva tutto e questa sensazione durò per diversi giorni», dice Aldeni, «tanto che di notte mettevo la testa sotto il cuscino per non far sentire ai miei compagni di stanza i miei lamenti».
Giunti alla Clinica di Ponte San Pietro, al reparto di chirurgia generale vascolare (perché non c’era altro posto), «vidi mio marito», racconta la moglie Amelia, «aveva un cerotto sulla testa, era un po’ tutto fasciato e immobilizzato. Aveva almeno gli occhi aperti e mi dissi: “Quindi non è morto”. Era spossato e appena mi vide cominciò a piangere. Non ricordo cosa ci siamo detti: io ero impietrita, lui con il cuore gonfio».
Sperandio disse alla moglie: «Sono qui ancora. Significa che devo darmi da fare ancora». La moglie rimase con lui fino a tarda sera, quando il personale le consigliò di andare a dormire. «Tornata casa trovai mio figlio Marzio ancora scosso. Mi raccontò in modo molto sommario quanto era accaduto».
«Quando ero ancora ricoverato a San Pietro veniva a trovarmi molta gente», dice Sperandio, «tanto che occorreva “filtrarla”». Intanto «continuavo a pregare don Gnocchi, anche perché era come se fosse “entrato dentro di me”. Leggevo le sue opere, come ad esempio Cristo con gli alpini, che avevo chiesto mi fosse portato dalla suora direttrice della Rotonda di Inverigo, che era venuta a trovarmi e alla quale avevo detto subito: “Mi ha salvato don Carlo”. Lo dicevo un po’ a tutti: era così forte la mia convinzione. Proprio perché sentivo di essere stato salvato da lui, desiderai conoscere meglio la sua figura”».
Aldeni rimase in ospedale quasi due mesi: aveva ustioni di terzo grado ai piedi e all’addome, di secondo grado alle mani, per il resto «si trovava in discrete condizioni generali», ammette il dottor Serra, «seppure con focolai di lesioni estesi e profondi».
«Le cure erano dolorose», dice Sperandio, «eppure mi è rimasta la volontà di continuare a impegnarmi per gli altri e in particolare per i ragazzi di don Carlo Gnocchi». Poi aggiunge: «Ricordo che le infermiere venivano a raccontarmi i loro problemi (anche quelli seri ed intimi), perché probabilmente davo loro fiducia».
Il 20 ottobre l’infortunato veniva dimesso dall’ospedale, seppure con le stampelle, e tornava a casa sua, però due volte alla settimana doveva recarsi in ambulatorio per continuare le medicazioni. Riabilitazione invece non ne fece mai, non era necessario. «Il 23 dicembre, l’antivigilia di Natale, ricordo che era un giorno di pioggia e di freddo intenso, che avrebbe scoraggiato chiunque a uscire», racconta Aldeni, «con quasi un centinaio di amici siamo andati in via Capecelatro sulla tomba di don Carlo Gnocchi e nella cappella abbiamo assistito alla messa di ringraziamento». Aveva infatti detto a parenti e ad amici: «Chi vuole venire con me, io vado a ringraziare don Carlo sulla sua tomba». Il risultato fu un pullman pieno di persone e molte auto al seguito.
«Un altro momento commovente», continua la donna, «fu per me la mattina di Natale. Era la messa delle 10.30 e accompagnai mio marito in chiesa: era la prima volta che vi ritornava e si aiutava ancora con le stampelle. La chiesa era piena di gente e, quando lo videro, tutti cominciarono a battere le mani, dall’Arciprete all’ultimo dei presenti. Mio marito rimase meravigliato e mi chiese cosa stesse succedendo, e io gli risposi: “È per te che battono le mani!”. Infatti la gente era ben al corrente delle condizioni di mio marito e più volte l’Arciprete aveva invitato a pregare per lui. Per questo quando lo vide entrare in chiesa disse al microfono: “È entrato Sperandio”. E scrosciò l’applauso. La gente di Villa d’Adda era ed è convinta che mio marito ha ricevuto il miracolo. Me lo dicevano già allora, quando mi fermavano per la strada, per chiedermi informazioni e farmi le felicitazioni». E conclude Aldeni: «Dicevo e dico sempre ai miei figli che “sono qui ancora perché devo fare qualcosa”, che “sono qui per un miracolo che mi ha fatto don Gnocchi. Da quel momento la mia devozione per don Carlo è entrata al centro della mia vita. Non potrò mai cessare di invocarlo, perché mi ha lasciato la salute e questa volontà di fare che mi ha sempre caratterizzato. Il Signore è stato buono con me per l’intercessione di don Carlo».