Il libro edito da Paoline, scritto da Luisa Bove, ripercorre l’intera vicenda del prete ambrosiano proclamato beato il 25 ottobre
Antonio AIRÒ
I trapianti di cornea sono oggi una realtà sicura nella chirurgia. Resi possibili dalla generosità e solidarietà dei donatori. Ma negli anni Cinquanta del secolo scorso, i trapianti dovevano fare i conti con i dubbi, le resistenze legislative, le riserve (anche di ordine morale). Eppure don Carlo Gnocchi, il prete dei “mutilatini”, come ormai era conosciuto in tutta Italia e anche all’estero, non aveva avuto dubbi nel donare i suoi occhi che il professor Cesare Galeazzi avrebbe impiantato, in quel fine febbraio 1956, in due giovani Silvio Colagrande e Amabile Battistello. Un gesto riportato con grande risalto dai quotidiani e dalla nascente televisione che avevano seguito con crescente partecipazione la morte del sacerdote milanese, (che molti ritenevano già santo). Ma per don Carlo questo gesto era nel Dna del suo sacerdozio più autentico. «Sogno, dopo la guerra, di potermi dedicare per sempre a un’opera di carità… Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri» aveva scritto nel corso della tragedia della guerra.
Questo suo “servizio” totale – che il 25 ottobre sarà riconosciuto nel Duomo di Milano con la beatificazione – ci viene presentato ora dalla giornalista Luisa Bove in un corposo volume “acuto e documentato”, come lo definisce nella prefazione, mons. Angelo Bazzari, presidente della Fondazione Don Gnocchi. Il libro (Paoline editore, 288 pagine, 16 euro) ripercorre con un ampio ricorso alle fonti – scritti dello stesso don Gnocchi, lettere, testimonianze edite ed inedite, articoli di giornali – ecclesiastiche e laiche (Schuster, Montini, don Barbareschi, monsignor Pisoni, monsignor Gilardi, Andreotti, De Gasperi, tra gli altri) i diversi passaggi della vita di un prete, che il noto giornalista OrioVergani avrebbe definito «un santo in officio» perché visto «nel modesto scenario di un ufficio di rappresentanza… E lo rivedrò sempre con quel bambino in braccio, mentre nel prato sotto alla finestra, salivano i canti dei suoi negretti e lo strano rumore dei giochi con le stampelle dei suoi mutilatini».
Nelle pagine della Bove si susseguono i tempi dell’impegno sacerdotale di don Gnocchi. Le prime esperienze a Cernusco e a san Pietro in Sala a Milano ma anche – da cappellano – nelle organizzazioni giovanili fasciste. Poi la direzione spirituale al “Gonzaga”, uno dei più prestigiosi istituti di Milano, passato sul finire degli anni ’30 da 700 a 1500 allievi, che si rivela – sono parole sue – «una terra feconda nella quale si può seminare a larghe mani». Oltre ai giovani coinvolge nel suo lavoro formativo anche le famiglie, le madri soprattutto, molte delle quali si impegneranno nella san Vincenzo e saranno generose negli aiuti ai suoi poveri. Scoppia la guerra. Diventa un prete “con le stellette”, amato dai suoi soldati «La naja mi ha preso il cuore», scrive. Vive con i suoi alpini la tragedia della ritirata dalla Russia (scriverà Cristo tra gli alpini). A tanti di questi militari morti prometterà di occuparsi dei loro bambini. Dopo l’8 settembre partecipa alla Resistenza; si rifugia in Svizzera; rientra in Italia ed è arrestato nell’ottobre del 1944 dalle SS tedesche. La guerra gli ha cambiato «la visuale della sua vita», confessa.
Il conflitto lasciava una lunga scia di “dolore innocente” da lenire e da condividere. Nella sola Italia c’erano almeno 15.000 mutilatini vittime di ordigni esplosivi; 3000 di questi avevano bisogno di ricovero urgente. Don Gnocchi «li voleva aiutare a sentirsi come gli altri della loro età», così la Bove sintetizza l’intenso e continuo impegno del sacerdote milanese, cominciato ad Arosio in provincia di Como e quindi allargatosi in altri Comuni, piccoli e grandi, con nuovi istituti destinati anche alle ragazze. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, il sacerdote non esita a battere cassa anche alla “borghesia lombarda”‘, a coinvolgere lo Stato ricorrendo a iniziative di grande richiamo come la transvolata oceanica da Milano a Buenos Ayres con un piccolo aereo, “l’angelo dei bimbi”, guidato da Maner Lualdi e Lorenzo Bonzi, e come il raid in moto Milano-Oslo e ritorno promosso insieme con l’amico don Andrea Ghetti. Dopo i mutilatini, la “baracca” di don Gnocchi, divenuta Fondazione Pro Juventute si sarebbe rivolta ai poliomielitici e quindi ai portatori di handicap. Il libro documenta ampiamente il realizzarsi di questo “sogno” di carità del beato don Carlo Gnocchi.