Colpita dal virus della poliomielite, ha conosciuto il “papà dei mutilatini” quando è stata accolta nella casa di Pessano. Oggi è presidente dell'Associazione ex Allievi Don Carlo Gnocchi
Luisa BOVE
È una storia toccante quella di Luisa Arnaboldi, anche se lei stessa ammette che come la sua ne esistono tante. Suo padre Giovanni, rimasto vedovo molto presto e con due figlie piccole, si era risposato cinque anni dopo con Domenica, una donna molto bella e più giovane di lui, che però da bambina era stata lievemente colpita a una gamba dalla poliomielite. Da quel matrimonio era nata Luisa il 2 settembre 1944 a Brenna (Co), un piccolo paesino a pochi chilometri da Inverigo, dove sorgeva uno dei collegi di don Gnocchi. Luisa era una bimba molto vivace, che aveva iniziato a camminare a 9 mesi: «Mia madre mi raccontava che correvo sempre e nessuno riusciva a fermarmi. Ma nel luglio 1946, non avevo ancora due anni, ogni tanto andavo da lei: “Mamma bibi, mamma bibi” e indicavo i piedini». Di tutta risposta la madre le rispondeva: «Per forza, corri come una matta», ma intanto controllava che non ci fosse qualche sassolino nelle scarpe.
«Una notte di quel luglio – allora dormivo ancora nel lettone – mia madre si accorse che avevo la febbre», spiega Arnaboldi. «Allora mi svegliò e notò che la gambina sinistra non mi reggeva più». Allarmatissima chiamò il marito e gli disse di correre a chiamare il medico perché temeva che Luisa fosse stata colpita da “paralisi infantile” (così era chiamata allora la poliomielite). Il dottor Cantù arrivò molte ore dopo e sentenziò che si trattava di dolori reumatici. «La mamma provò a ribadire: “Dottore, non sarà paralisi infantile?”, ma il medico le rispose sprezzante: “Vuoi saperne più di me?”. A quel punto mia madre, con la morte nel cuore, tacque».
«Sono passati tre giorni prima che il medico tornasse, ma intanto il virus aveva continuato a “galoppare” nel mio corpicino forte, ma forse indebolito in quei giorni dalla vaccinazione antivaiolosa». Luisa non muoveva più la gamba sinistra e di quella destra solo l’alluce, anche un braccio restava inerte, mentre il tronco era flaccido. «Avevo perso il mio chiacchiericcio gioioso, come se fossi intenta a lottare contro un male che mi distruggeva». Finalmente il medico si rese conto della gravità della situazione e prescrisse sull’impegnativa il ricovero al più vicino ospedale. «In quei giorni di angoscia mia madre aveva chiesto ai bimbi dell’asilo di pregare, come pure al parentado e alla gente del paese». Alla fine Luisa fu dimessa dall’ospedale, «perché per il resto ero una bambina sana», ma la sentenza dei medici fu infausta: «Non camminerà più, perché è stata colpita in modo molto grave».
Per la piccola iniziò una nuova stagione e con la sua vitalità cercava di superare ogni ostacolo, nonostante tutto era felice. Era sempre in terra o in braccio alle sorelle più grandi oppure «sulla mia carrozzella simile a un risciò cinese che mi aveva regalato il sindaco del paese». Ma intanto gli arti inerti di Luisa non stimolati da alcuna riabilitazione si deformavano, la madre allora si rivolse ancora una volta al medico di famiglia: «Non si può fare niente per mia figlia?», chiese la donna, ma il dottor Cantù rispose che era meglio aspettare l’età dello sviluppo prima di fare un’operazione.
«Finché un giorno mia mamma sapendo che arrivava all’ospedale di Cantù un luminare da Milano, il professor Carlo Annovazzi (un chirurgo di cui ho scoperto in seguito che conosceva e collaborava con don Carlo Gnocchi), decise di farmi visitare da lui senza avvisare il nostro medico. Quando mi vide – ricordo ancora i suoi urli – disse che mia madre era una snaturata e che se non mi operavano immediatamente le deformazioni mi avrebbe impedito di stare anche solo seduta. Aggiunse inoltre che se il nostro medico si fosse opposto, lui mi avrebbe operato lo stesso».
Fu un intervento lungo e delicato, durò infatti 6 ore, poi la piccola paziente (aveva allora 7 anni) fu riportata in reparto con un’ingessatura che «mi faceva sembrare una mummia, avevo libere solo le braccia e la testa», racconta oggi. «Sarei dovuta tornare a casa pochi giorni dopo, ma ho iniziato ad avere la febbre e i medici temevano qualche complicazione. Finché un “dottorino”, guardandomi la gola, ha scoperto che avevo una brutta tonsillite, di cui non mi accorgevo per i dolori che avevo nel resto del corpo».
Per il secondo intervento il professor Annovazzi non voleva lasciar passare troppo tempo, ma allora la mutua pagava solo 40 giorni all’anno di degenza, per il resto toccava alla famiglia. Gli Arnaboldi non avevano molte possibilità economiche, ma il chirurgo, che si era affezionato alla bambina, disse:
«L’intervento te lo regalo io» e non volle compenso né per sé né per i suoi collaboratori. La famiglia quindi avrebbe dovuto sostenere solo le spese di degenza post-operatoria e comunque non più di 8 giorni. Anche il secondo intervento andò bene e Luisa tornò a casa, «ma ogni tre mesi dovevo andare a cambiare il gesso». Dopo oltre un anno di trattamento il professor Annovazzi disse alla bambina: «Adesso devi mettere il tutore, perché le deformazioni potrebbero tornare». E così «papà vendette una mucca per acquistarmi i primi tutori». Prima di essere operata Luisa aveva frequentato la prima elementare poi, a causa dei due interventi chirurgici perse un anno di scuola. «Ero davvero brava e aiutavo gli altri bambini a fare i compiti, ci trovavamo nell’osteria del paese. In cambio mi facevo portare a giocare, io ero la capo-banda. Per me era una gioia fare la maestra, tutti venivano da me perché le ripetizioni dall’unica altra insegnante del paese erano a pagamento». E così nei pomeriggi i lunghi tavoloni di legno del locale si riempivano di bambini intenti a fare i loro compiti, per poi correre a giocare.
«Un giorno, mentre facevamo i compiti nell’osteria – erano i primi mesi del 1955 – c’era la televisione accesa (l’unica del paese) e noi la guardavamo incantati. C’era una trasmissione durante la quale venivano fatti dei doni alle persone bisognose». Dal momento che la famosa carrozzina-risciò si era rotta a causa dei troppi colpi sul selciato, i compagni di Luisa decisero di farle una sorpresa. Scrissero quindi una lettera per ricevere una carrozzina a manovella, ma la risposta fu che la trasmissione era già terminata.
Ogni tanto Luisa ripetevo a sua madre che voleva continuare a studiare, ma la risposta era sempre la stessa: «Non possiamo». Finché «un giorno, vedendo in tv Giovanni Gronchi, il presidente della Repubblica, mi è venuta l’idea di scrivergli una bella letterina senza dire niente a nessuno: “Sono una bambina di 11 anni, mi piace tanto studiare, ma la mia famiglia è molto povera, io sono in carrozzina e non camminerò mai, però voglio almeno andare a scuola…”. Il presidente non mi rispose direttamente, ma un mese dopo arrivò a casa nostra un giovane sacerdote, don Renato Pozzoli, collaboratore di don Gnocchi, che viveva al Collegio di Inverigo. Quel giorno, come sempre, ero intenta a giocare alla maestra, seduta per terra e attorniata da alcune compagne. Vennero a dirmi: “Luisa, c’è un prete che ti cerca”».
«Un prete? Cosa vuole da me?». Allora Luisa non aveva «molta dimestichezza con la preghiera» e con il suo carattere forte e volitivo si ribellava anche a certe esclamazioni delle anziane del paese: «Che peccato… Che bella bambina… Cosa farà nella vita? Che disgrazia!».
«Dicevano così quasi colpevolizzando mia madre o chissà chi».
Don Renato aveva sentito la risposta della bambina: cosa vuole da me un prete? Allora le si avvicinò e chiese: «Ma non vuoi studiare?».
«Oh, sì, questo sì».
«E allora sono venuto per questo. Ma tu non stai proprio in piedi?».
«Ho camminato un anno, ma non ricordo nulla perché ero troppo piccola, adesso però mi dicono che non camminerò mai».
«Allora dovrai dire una piccola bugia…».
«Dopo i primi giorni però mi sentivo sperduta», continua Arnaboldi, «mi mancavano gli amici, le scorribande con i compagni, la vita da vagabonda in mezzo ai boschi… allora mi infilavo in chiesa con la mia carrozzina per piangere di nascosto».
Intanto don Carlo era sempre più malato e in tutte le case da lui fondate i piccoli ospiti e il personale pregava per la sua guarigione. «Insieme a Maria Teresa Fedele ero stata scelta per andare a Lourdes a pregare. Fu un’esperienza nuova e sconvolgente per me, eravamo attorniate dalle cure amorevoli delle Dame di San Vincenzo e ricordo in particolare la contessa Cecilia Cicogna Mozzoni, che mi dimostrava grande affetto. Pregai con tutto il cuore, conscia del compito che mi era stato affidato». Al suo rientro Luisa fu accompagnata da don Gnocchi che voleva sempre conoscere le nuove arrivate. «Era a letto molto sofferente e una Sorella delle Minime Oblate di Maria, nostre educatrici a Pessano, mi portò in braccio da don Carlo e disse: «È l’ultimo acquisto, si chiama Luisa, vorrebbe almeno essere autonoma, ma i medici dicono che non potrà mai camminare».
«Don Gnocchi mi fissava intensamente», racconta Luisa, «quello sguardo buono e profondo mi trasmetteva amore e fiducia: finalmente qualcuno mi osservava con altri occhi e io sentivo che quello sguardo stava trasformando il mio cuore, anche se lo avrei scoperto solo più tardi. Dopo un lungo minuto di silenzio don Carlo mi sussurrò: “Ce la farai!”, poi chiuse gli occhi in una morsa di dolore e mi portarono fuori dalla sua stanza. Ma il “miracolo” era avvenuto: lui credeva in me e io non l’avrei deluso».