Negli anni del Seminario a Monza il prossimo Beato si appassionò alla pittura, alla musica e alla poesia; ma la vocazione più forte rimase quella al sacerdozio. Il ricordo di un suo compagno di studi e preghiere, il futuro cardinale Giovanni Colombo
di Filippo MAGNI
La beatificazione di don Carlo Gnocchi, che avverrà domenica 25 ottobre, ha posto sotto i riflettori la figura del “papà dei mutilatini”, la sua vita senza soste e il suo amore per i piccoli. Si citano spesso l’irrequietezza d’animo negli anni appena successivi all’ordinazione, il periodo da cappellano degli alpini e la ritirata di Russia, il desiderio ardente di dar vita a un’opera di carità, la Fondazione da lui creata che ne ha raccolto l’eredità.
Meno noti sono invece gli anni monzesi di don Carlo, quando il giovane studiò presso il Seminario arcivescovile in piazza Trento e Trieste, per poi ricevere l’ordinazione nel 1925. È il periodo in cui si formò il don Gnocchi sacerdote e iniziò a germogliare in lui il progetto di dedicare la vita alla carità. Ne dà viva testimonianza il cardinale Giovanni Colombo, arcivescovo di Milano dal 1963 al 1979, che ricordava don Carlo «diciottenne, compagno di studi, di preghiere, di ideali, di sogni tremendi nel Seminario liceale di Monza».
Nel discorso commemorativo in occasione del sesto anniversario della morte (28 febbraio 1962), l’allora monsignor Colombo ne ricordava, negli anni del Seminario, «la sensibilità singolare, per cui aveva un’intuizione caratteristica nel capire i sentimenti altrui, nel condividerli. Era capace di vibrare con le gioie e le pene del prossimo in un modo singolare». E ancora: «A me sembrava, allora che lo guardavo stupito, ammirato, che avesse un dono particolare di capire gli uomini in mezzo ai quali viveva o doveva vivere».
Il futuro cardinale Colombo ripercorreva nella memoria gli incontri con don Gnocchi e la sua particolare passione per l’arte. «Allora – sottolineava – la storia dell’arte non era prescritta dai programmi ministeriali per i licei classici, ma egli vi si appassionava di sua iniziativa». E proseguiva: «Fu lui a introdurmi nei segreti dei nostri pittori macchiaioli, dei divisionisti, Fu lui a parlarmi dell’impressionismo francese. Dalle sue labbra udii per la prima volta, io compagno che lo ammiravo e sentivo la sua superiorità, i nomi di Cremona, di Segantini, di Van Gogh». Don Gnocchi, proseguiva il cardinale Colombo, era attratto anche dalla musica (unico organista del Seminario) e dalla letteratura. Tanto che, confessava il cardinale, era sorto in lui un dubbio: «Se Carlo Gnocchi non fosse fatto più per essere artista che per essere sacerdote, se la sua vocazione più vera, più profonda, non fosse quella del poeta».
Il dubbio si dissipò quando don Gnocchi, nei corridoi del Seminario monzese, si avvicinò a don Colombo per fargli leggere le Osservazioni sulla morale cattolica di Manzoni. «Quelle righe – ricordava – dicevano che nell’atto di carità del più sprovveduto tra gli uomini c’è una nobiltà e un’eccellenza che supera quella che si riscontra nella più alta speculazione del filosofo e nel più alto progetto d’opera d’arte del poeta o dell’artista». Don Gnocchi, aggiungeva il Cardinale, «vibrava nel farmi leggere quelle pagine. E allora ho capito che aveva chiaramente, profondamente, irrevocabilmente deciso di mettersi senza riserve e senza titubanze nella sequela di Cristo per dare al mondo l’amore».
Lì il giovane seminarista Giovanni Colombo comprese che «la vocazione più profonda di Carlo era il sacerdozio, che era nato esclusivamente per questo». Senza abbandonare ciò che lo appassionava, aggiungeva il Cardinale: «La sensibilità, l’arte, il pensiero lo seguivano nel sacerdozio di carità, come umili e docili ancelle». La strada era tracciata, già dal Seminario: «Messo di fronte alla sensibilità e alla bellezza – raccontava il Cardinale -, e dall’altra parte alla carità, don Gnocchi ha scelto la carità. Ha scelto l’amore, perché gli uomini hanno sì bisogno di bellezza e di consolazione, ma soprattutto hanno bisogno di amore!».