Parla Amabile Battistello: recuperò la vista grazie alla cornea donata dal “papà dei mutilatini”, che sarà beatificato domenica 25 ottobre in piazza Duomo a Milano. «Volle dare una parte di sé, proprio come fa un padre allorché genera un figlio»
di Giovanni GUZZI
Amabile Battistello ha recuperato la vista grazie a una cornea di don Carlo Gnocchi, trapiantata dopo la morte del sacerdote che sarà beatificato domenica 25 ottobre in piazza Duomo a Milano. Persona tanto accogliente e vivace quanto riservata sulla sua vita privata, ha tuttavia accettato di raccontarci come il dono di don Gnocchi ha cambiato la sua vita e il suo pensiero sul sacerdote.
In che modo la sua strada ha incrociato quella di don Gnocchi?
Ero ragazza e avevo già sperimentato l’amarezza di non poter realizzare il mio avvenire come l’avevo sempre sognato: studiare Fisica, esercitare una professione, avere una famiglia e dei figli. Non mi pareva di chiedere chissachè, ma nelle mie condizioni di non vedente tutto questo sarebbe stato inconcepibile. Credo tuttavia che il nostro incontro sia stato “preparato” nel periodo più tragico della sua esperienza pastorale, durante la campagna di Russia tra gli Alpini, mentre io, ignara della sua esistenza, accompagnata da uno zio partivo dal mio paese Cusano Milanino per bussare alla porta del professor Cesare Galeazzi, affinché facesse qualcosa per ridarmi la vista.
E che cosa le disse il professore?
Ogni volta che tornavo da lui ripeteva sempre la medesima frase, quasi il ritornello di una triste filastrocca, diventata ormai noiosa: «Per curare lesioni corneali come la tua serve un trapianto, ma i tempi non sono maturi e la scienza è ancora indietro. Abbi pazienza e fidati di me: un giorno lo faremo e tu guarirai», mi diceva con tono paterno e voce pacata e sicura. Mi domando ancora se fosse ispirato da un presentimento arcano o pronunciasse quelle parole soltanto per farmi coraggio. Ma i fatti gli hanno dato ragione…
Ma lei cosa pensava allora?
Tornavo a casa delusa e, sfiorando le siepi di roselline multicolori che a quei tempi bordavano le strade del mio paese, camminavo verso la chiesa parrocchiale di Regina Pacis, dove frequentavo il catechismo e pregavo la Madonna affinché si avverasse la promessa di quell’uomo che conservava tutte le mie speranze. Andavo a scuola, ma solo come auditrice, poiché la poca vista residua mi consentiva a malapena di scrivere tra le righe. Nelle materie orali, invece, andavo a meraviglia: mia madre me le leggeva e io, che avevo memoria pronta, le imparavo subito… Sforzi che, però, non sarebbero bastati ad assicurarmi l’autonomia che ogni persona aspira di ottenere da adulta.
Come ritiene che don Gnocchi arrivò a decidere di donare le cornee?
Appena tornato dalla guerra, don Gnocchi cominciò a battere proprio sul punto dell’autonomia del minorato fisico. Come se dovesse difendere una sua menomazione, forse giacente in fondo al cuore: non aver potuto salvare tutte le vite andate perse al fronte. Così si occupò dei piccoli mutilatini, colpiti dai residuati bellici abbandonati, dei militari di ritorno dai campi di battaglia e poi dei poliomielitici: tutte persone che avevano bisogno di far sentire la loro voce dal basso della propria condizione di emarginati.
Per loro don Gnocchi non chiedeva pietà per la sofferenza, per le membra martoriate, ma la possibilità di riscatto attraverso un’esistenza normale, dignitosa, che poggiasse sulla capacità di provvedere a loro stessi dando il proprio contributo lavorativo dopo aver acquisito gli strumenti idonei. Strumenti che si prefiggeva di garantire ai suoi ragazzi con la scuola, che tenesse conto sì delle menomazioni, ma anche delle risorse che ognuno ha in sé e può sviluppare con un adeguato addestramento. Non cittadini di serie B e C, li voleva, ma uomini e donne inseriti nel contesto sociale a tutti i livelli.
Impegnato in questa nuova “missione”, don Gnocchi si spese senza riserve, trascurando il terribile nemico che lo consumava dentro e lo tormentava con grandi dolori… Lui sopportava, perché non aveva tempo per ascoltarli; ne aveva vista di gente soffrire atrocemente, e in confronto a quel dolore il suo gli pareva cosa da nulla. Così il suo male si fece largo fino a prendersi tutto l’organismo. Solo allora don Carlo si rese conto di non poter più stare in prima linea.
Non era facile per lui doversi arrendere e fare egli stesso l’ammalato. Nella sua mente c’era un solo pensiero: la sua “baracca”, come chiamava l’opera a cui aveva dato tutte le sue energie e che aveva ancora bisogno della sua mano. Fu così che, pur piegandosi alla volontà di Dio, pensò di dover dare una parte di sé, proprio come fa un padre allorché genera un figlio: intendeva rigenerare due vite condannate al buio.
Come venne scelta per ricevere un simile dono?
Quando don Gnocchi chiese al professor Galeazzi, suo amico, di promettergli che, dopo la sua morte, avrebbe preso dai suoi occhi le cornee per ridare la vista a due dei suoi ragazzi, il medico rispose: «Ne ho trovato solo uno idoneo fra i tuoi mutilatini. Ma c’è una giovane che da anni aspetta che io l’aiuti. Se non hai nulla in contrario, sarà lei a beneficiarne!». Don Gnocchi aggiunse soltanto «Grazie», e questo al professore bastò.
Ma non si trattava di un’operazione allora illegale?
È vero. A quel tempo la pratica dei trapianti era severamente condannata dalla Chiesa e dalle leggi dello Stato. Quindi il professor Galeazzi trasgredì la legge, diventando passibile di arresto immediato. Gli occhi furono perciò trafugati e le cornee preparate al trapianto in assoluto segreto, mantenuto fino al giorno dell’intervento, in modo che se ne venisse a conoscenza solo a cose già fatte. Allorché fece la sua richiesta, don Carlo certo non ignorava di proporre un atto illecito, ma il suo spirito di servizio superava regole umane poco lungimiranti.
Che rapporto ebbe con don Gnocchi?
Lo incontrai spiritualmente, e in un certo senso anche fisicamente, il giorno dopo la sua morte, quando ricevetti quel brandello di cornea. Un incontro la cui importanza non è diminuita in proporzione al volume della materia che mi fu donata. Fu invece un incontro pieno, a tutto campo, l’incontro con una nuova esistenza. Anche se ormai non avrei potuto realizzare la vita che avevo sognato, fu comunque una cosa immensa, una rinascita: forse Lui, di lassù, aveva già previsto ogni cosa.
Cosa ricorda di quel momento?
Il giorno in cui mi tolse le bende dagli occhi e mi fece guardare verso un luogo lontano, e io individuai una finestra aperta, il professor Galeazzi pianse. Poi accese un registratore, azionò un pulsante e la voce debole e sofferente, ma serena, del mio benefattore, incisa su nastro dallo stesso medico, pronunciò le frasi che non scorderò mai: «Cari amis, ve raccomandi la mia baracca… Ve la lasi; pusse d’inscì ho minga podù fa. E tu, professor Galeazzi, devi promettermi che alla mia morte prenderai questi occhi e li utilizzerai affinché due ragazzi possano vedere. È tutto quello che mi resta da dare ancora!». Era la sua voce, che per me non aveva ancora un volto. Volli ascoltarla tante volte, fino a imprimermi nella mente quel timbro sofferente, ma deciso. Riascoltandola insieme a me, il professor Galeazzi più volte si asciugò le lacrime che gli scendevano sul viso.
Fu così, senza incontrarci, senza conoscerci, che da quel giorno don Gnocchi camminò insieme a me. Il professor Galeazzi gli aveva detto il mio nome, me lo confermò lui stesso: a me sembrò un grande onore che un uomo così santo conoscesse quel poco di me. Ciò che accadde dopo è storia già scritta, e non si deve aggiungere altro.