San Giovanni Crisostomo, vescovo e dottore della Chiesa
Giovanni, chiamato Crisostomo – che significa “bocca d’oro” – per la sua eloquenza e il calore della sua parola, nacque ad Antiochia, in Siria tra il 340 e il 350. Fu avviato allo studio delle lettere e dell’arte retorica sotto la guida del più celebre retore di quel tempo, Libanio, e al termine degli studi, attratto, come lui stesso racconta, dalle “sollecitudini del mondo e dalle chimere della giovinezza”, si mise a “correre le arringhe del foro e appassionarsi per il teatro”. Ma tornò rapidamente, dopo appena due anni, alle radici della sua fede cristiana e a vent’anni, nella Pasqua del 368, ricevette il Battesimo. Nell’asceterio di Diodoro – una sorta di cenobio cittadino che era insieme seminario e centro di studi teologici – e sotto la sua guida magistrale, si appassionò allo studio della Sacra Scrittura, e nel 371 fu ordinato lettore, coadiuvando il vescovo Melezio, che apprezzava in Giovanni sia la dottrina che l’esemplarità dei costumi, nell’istruzione dei cristiani e dei catecumeni. Trascorse quindi sei anni di vita eremitica, prima sul colle Silpio, vicino ad Antiochia e poi in totale solitudine e penitenza, vivendo in una caverna. Ritornato ad Antiochia riprese la sua attività apostolica di predicatore della Parola. Il vescovo Melezio lo ordinò diacono e il suo successore Flaviano, nel 386, sacerdote. Prima dell’ordinazione al sacerdozio, aveva già scritto almeno cinque dei suoi trattati; le sue omelie gli attiravano la simpatia di tutto il popolo. Celebre è l’Omelia sulle statue, nella quale riuscì a rianimare il popolo sul quale incombeva una rappresaglia imperiale per una rivolta scoppiata a causa di una nuova imposta. Nel 397 fu eletto patriarca di Costantinopoli, cattedra di tutti i cristiani d’oriente. Incominciò subito a riformare gli usi della sua sede patriarcale, devolvendo i beni della mensa vescovile per i poveri; al clero chiese di fare lo stesso e ai monaci di ritornare alla regola dei padri. La venerazione e l’amore di cui era oggetto da parte del popolo e la sua predicazione contro i vizi e il lusso dei ricchi e della corte gli attirarono odi e gelosie. L’imperatrice Eudossia cercò di togliere di mezzo lo scomodo predicatore. D’accordo con Teofilo, il patriarca di Alessandria, lo fece passare come sospetto di eresia; in un concilio sedizioso venne deposto e mandato in esilio. Il risentimento popolare e un terremoto che spaventò l’imperatrice Eudossia, spinsero a richiamarlo alla sua sede, dove Giovanni, fedele alla sua missione, riprese la predicazione a correzione dei vizi e degli abusi di potere. Fu allora nuovamente esiliato, in Armenia prima e poi, per allontanarlo dal favore che incontrava nei credenti anche in quel luogo, trasferito più lontano, sulle coste del Ponto Eusino, a Pitione. Ma non giunse a destinazione, perché sfinito dall’estenuante viaggio, morì per via, presso il santuario di S. Basilisco, ripetendo la sua preghiera preferita: “Gloria a Dio, in ogni cosa”. Era l’anno 407. Le sue opere letterarie – Trattati di ascetica e morale, Omelie sulla Genesi, sui Salmi, sui Vangeli di Matteo e di Giovanni, sugli Atti degli Apostoli e sulle Lettere di san Paolo, Omelie battesimali e liturgiche – gli conferiscono un posto di primo piano tra i Padri orientali.