Alla scoperta di Mauro Berruto, commissario tecnico della Nazionale di Volley impegnata nel Mondiale in Polonia: «Le mie radici sono cattoliche; da ragazzino ho trascorso le giornate nell’oratorio di Borgo San Paolo della mia città. Lì ho svolto il servizio civile, ero responsabile del centro di accoglienza immigrati della Caritas, lì ho cominciato ad allenare. Se sono l’uomo che sono, lo devo a quelle esperienze»

di Cristina MARINONI

Mauro Berruto

Il primo obiettivo di Mauro Berruto, commissario tecnico dell’Italvolley impegnata nei Mondiali in Polonia, che conquista almeno una medaglia l’anno (dall’argento europeo nel 2011, attraverso il bronzo alle Olimpiadi del 2012, fino al terzo posto di luglio alla World League)? Vincere, naturalmente.

Trasmettere la bellezza

Il secondo proposito dell’allenatore torinese – classe 1969, laurea in filosofia, sulla panchina azzurra dal 17 dicembre 2010 – è tutt’altro che scontato: «Trasmettere la bellezza della pallavolo». Sono queste le prime parole che adopera il ct quando racconta della disciplina di cui è ambasciatore. E per “bellezza” il coach intende molto più del semplice spettacolo che va in scena sotto rete, tra schiacciate a elevazioni siderali, muri poderosi e tuffi acrobatici per recuperare palloni dalle traiettorie imprevedibili. Dice: «A partita conclusa, io, lo staff e gli atleti siamo attesi da una sfida altrettanto impegnativa e appassionante: diffondere il messaggio positivo dello sport e del volley in particolare. Il primo dà lezioni di vita, oltre a fornire strumenti preziosi per crescere e migliorarsi appieno, come persone; stimola il confronto ma, al tempo stesso, respinge lo scontro perché educa alla sana rivalità e al rispetto dell’avversario. Il secondo possiede un valore aggiunto che lo rende davvero speciale, anzi, unico: è lo “sport del passaggio”».

Scambiarsi il pallone è obbligatorio

Proprio così, sul rettangolo di 18×9 metri, scambiarsi il pallone è obbligatorio per regolamento. Risultato: esclusa la battuta, un giocatore non può portare a termine un’azione da solo, è indispensabile il contributo dei compagni per segnare un punto. «Un principio rivoluzionario, a mio avviso: l’individualismo, tanto osannato nella società attuale, non è contemplato nella nostra disciplina, dove il talento del singolo è messo a disposizione della collettività». “L’unione fa la forza”, insomma: per aggiudicarsi un match di volley bisogna riporre totale fiducia negli altri cinque e, di conseguenza, condividere le responsabilità, «mettere da parte ambizioni personali – aggiunge Berruto – e ogni forma di protagonismo, collaborare per raggiungere l’intento comune». Ovvero il bene comune, pensiero cristiano per eccellenza tradotto da Paolo con la metafora dell’unità e della condivisione tra le membra del corpo.

Le radici nell’oratorio

«Del resto, le mie radici sono cattoliche; da ragazzino ho trascorso le giornate nell’oratorio di Borgo San Paolo della mia città. Lì ho svolto il servizio civile, ero responsabile del centro di accoglienza immigrati della Caritas, lì ho cominciato ad allenare. Se sono l’uomo che sono, lo devo a quelle esperienze». Insieme al percorso universitario; la tesi in antropologia culturale, c’è da scommettere, gli ha permesso di approcciarsi in una maniera del tutto soggettiva al mestiere di coach. «Sì, esistono tantissime assonanze con ciò che ho approfondito durante il corso di laurea. Che si tratti di un’etnia o di una squadra, i processi di identità e costituzione di un gruppo sono identici. Il mio interesse verso l’uomo, l’attitudine a cercare la ricchezza nelle differenze all’interno di un nucleo mi spingono a coinvolgere gli atleti in “esperimenti” lontano dalla palestra e loro rispondono entusiasti alle mie proposte. Come in occasione della visita alla comunità di San Patrignano, un paio di mesi fa. Abbiamo lasciato la Romagna carichi di emozioni intense e con l’ennesima conferma sull’importanza del sacrificio. Soltanto il duro lavoro rende: attraverso allenamenti e partite per noi, con laboratori e attività quotidiane per quei 1.300 giovani straordinari».

L’energia positiva della famiglia

A chi, sorpreso dai suoi metodi innovativi di gestione, coordinamento delle «risorse umane» (così definisce lui atleti e collaboratori) e ricerca di strategie «una mia regola è cambiare di continuo prospettiva», lo definisce “filosofo”, Berruto replica: «No, sono laureato in filosofia», mentre dichiara senza esitare di essere «marito e padre felice. La famiglia è il fulcro sul quale si basa ogni scelta che prendo. Da parecchi anni, ormai, trascorro diversi mesi via da casa ed è proprio la forza che mi danno i miei cari da vicino e lontano – la tecnologia ci è amica – a caricarmi di energia positiva, con il desiderio di riabbracciarli al più presto».

La scelta della maratona

Tutti amori al femminile, quelli del coach azzurro: la pallavolo, la filosofia, la famiglia, ma anche la lettura «acquisto libri su libri, chissà quando li leggerò!», la scrittura (la sua ultima pubblicazione è il romanzo Independiente Sporting, Baldini&Castoldi) e la corsa. Sport individuale che sembrerebbe un paradosso, considerato l’uomo di squadra che rappresenta; al contrario, basta ascoltare la sua spiegazione per trovare il nesso con il resto. «Punto alla maratona, su indicazione di uno dei miei idoli, il campione di atletica leggera Emil Zátopek. Disse: ‘Se vuoi correre, corri un miglio. Se vuoi conoscere una nuova vita, corri la maratona’ e io voglio imparare ancora un sacco».

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