Il vermiglio dell'anilina si è stinto da tempo, ma quella che oggi il Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo Da Vinci di Milano si accinge a restaurare è proprio la celebre, malinconica "tenda rossa" che ottant'anni fa diede rifugio ai superstiti della sfortunata spedizione polare di Umberto Nobile


Redazione

25/07/2008

di Luca FRIGERIO

Nel primo quarto del secolo scorso si guardava all’Artico come negli anni Cinquanta e Sessanta si guarderà alla Luna, come a una sfida da raccogliere, come a una meta da conquistare. Culmine del mondo, inesplorato e misterioso, il Polo Nord affascinava e inquietava, calamitando l’attenzione degli scienziati e la curiosità delle masse. Gli esploratori polari erano i veri eroi di quegli anni, moderni cavalieri pronti ad affrontare difficoltà disumane e l’ignoto. Non c’era Paese “moderno” che non tentasse la conquista di quel mondo di ghiaccio: americani, inglesi, scandinavi, francesi… E italiani.

ALLA CONQUISTA DEL POLO NORD
L’Italia degli anni delle spedizioni di Nobile è un’Italia ancora povera , con un alto tasso di analfabeti, con milioni di emigranti. Ma è anche un’Italia che aspira a diventare potenza mondiale , che sente “tradita” la vittoria per cui ha tanto sofferto, che vede il nascere e il radicarsi del regime fascista. Alla mancanza di mezzi, secondo la tipica tradizione italiana, si supplisce con fantasia e capacità di arrangiarsi, con intelligenza e intuito . Ed è quello che, in una certa misura, succederà anche per la spedizione polare di Umberto Nobile.

Già nella primavera del 1926, l’esploratore norvegese Roal Amundsen aveva compiuto una straordinaria traversata dell’Artico , la prima mai compiuta dall’uomo, con il Norge, progettato e comandato da Nobile, che aveva dimostrato come il dirigibile fosse all’epoca l’unica macchina in grande di compiere lunghi voli, anche in condizioni estreme , senza punti di rifornimento. La trasvolata del Norge aveva destato grande ammirazione in tutto il mondo, ma si era trattato di un’impresa aeronautica più che scientifica.

Nobile intendeva invece proseguire l’esplorazione del Polo Nord, ampliando le poche conoscenze geografiche che si avevano allora su quello sterminato territorio. Il suo progetto non incontrò tuttavia grande favore nel governo fascista , e il generale italiano portò dunque a termine la costruzione di un secondo dirigibile per la nuova missione polare grazie soprattutto al contributo di un gruppo di industriali milanesi. L’aeronave era identica al Norge nelle dimensioni: misurava infatti oltre cento metri di lunghezza e ventiquattro di altezza. Un gigante dell’aria, senza dubbio, ma ben più piccolo di altri dirigibili dell’epoca: i famosi Zeppelin tedeschi, ad esempio, erano addirittura sei volte più grandi.

I PREPARATIVI E LA PARTENZA
La preparazione della parte scientifica fu lunga e meticolosa, e coinvolse diverse università e vari istituti di ricerca, italiani e stranieri, che studiarono realizzarono per la spedizione nuovi strumenti e appositi macchinari. Nella primavera del 1928 tutto ormai era pronto. Il 15 aprile il dirigibile, battezzato con il nome «Italia», partiva dall’aeroporto militare di Baggio con a bordo, oltre al comandante Umberto Nobile, dodici uomini di equipaggio (tecnici e militari italiani), tre scienziati (Pontremoli, Malmgren e Behounek) e due giornalisti (Lago e Tomaselli).

Dopo un volo di circa seimila chilometri, l’Italia giunse il 6 maggio alla Baia del Re, nelle isole Spitsbergen, che era stato il “trampolino di lancio” anche della precedente missione polare . Nobile aveva programmato tre ricognizioni. La prima fu funestata da guasti tecnici al dirigibile e dalle avverse condizioni atmosferiche , e si concluse prima del previsto. La seconda ebbe invece pieno successo: durò tre giorni e interessò territori inesplorati a nord-est delle isole Svalbard, riportando importanti informazioni geografiche. Il terzo volo dell’Italia, invece, avrebbe dovuto riguardare la parte settentrionale della Groenlandia, ancora inesplorata, per dirigersi poi sul Polo Nord, dove era prevista la discesa sul pack di alcuni uomini per effettuare misurazioni scientifiche.

IL DISASTRO
All’alba del 23 maggio il dirigibile si levò con sedici persone a bordo, per quello che sarebbe stato il suo ultimo, tragico viaggio. Per tutto il giorno il volo era stato tranquillo. Ma una volta raggiunto il Polo, nella notte, cominciarono i problemi. Un forte vento impediva la stabilità dell’aeronave, tanto che divenne impossibile lo sbarco degli scienziati. Nobile ordinò di riprendere la via del ritorno, ma la manovra si rivelò tutt’altro che semplice: a causa delle avversità atmosferiche l’Italia non riusciva infatti a mantenere la rotta. Improvvisamente il capo motorista Natale Cecioni diede l’allarme: il dirigibile perdeva quota rapidamente. Tutti i tentativi di risalita si rivelarono vani.

« Istintivamente afferrai il timone fra le mani pensando se fosse possibile dirigere l’aeronave su un campo di neve per attutirne l’urto », raccontò lo stesso Nobile. «Troppo tardi! Il pack era a pochi metri sotto la cabina. Vedevo i massi di ghiaccio ingrandirsi, avvicinarsi sempre più. Un istante dopo urtammo. Fu uno scroscio spaventoso. Mi sentii colpire alla testa. Fui come compresso, schiacciato. Chiaramente, senza alcuna sensazione di dolore, mi sentii rompere alcune membra . Poi qualche cosa che dall’alto mi ruinava addosso mi fece cadere con la testa in giù. Istintivamente chiusi gli occhi, e con assoluta lucidità e freddezza formulai in quell’attimo il pensiero: “Tutto è finito”. Erano le 10.33 del 25 maggio. Lo spaventoso avvenimento era durato solo due o tre minuti».

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