La governance europea non è già più imperniata soltanto su obiettivi economico-finanziari

di Matteo CORTI
Professore associato di Diritto del lavoro nell’Università cattolica - Vice presidente dell’Unione giuristi cattolici di Milano

corteo europa chiese cristiane 2019 (D)

La recente gravissima crisi economico-finanziaria ha lasciato ferite molto profonde nel tessuto sociale europeo. Rapidamente trasformatasi in una crisi del debito sovrano di molti Paesi economicamente più fragili, tra cui l’Italia, essa ha richiesto draconiane politiche di contenimento della spesa pubblica e di aggiustamento strutturale per ristabilire la fiducia dei mercati ed evitare il tracollo del progetto di integrazione più significativo mai realizzato sul suolo europeo, ovvero l’Unione economica e monetaria, simboleggiata dall’adozione della moneta comune, l’euro. Le misure necessarie per salvaguardare la credibilità dei bilanci pubblici e preparare il rilancio dell’economia sono state coordinate dall’Unione nell’ambito del cosiddetto Semestre europeo: nei Paesi maggiormente investiti dalla recessione esse hanno comportato dolorosi tagli al welfare state e riforme di liberalizzazione dei mercati del lavoro, che hanno accentuato le sofferenze di molti popoli europei, già duramente provati dagli effetti della crisi economica. In tale contesto non stupisce il diffondersi e il rafforzarsi dei movimenti e partiti cosiddetti “sovranisti”, in varia misura ostili all’integrazione europea.

Vi è però anche un’altra Europa, purtroppo meno raccontata e presente nei media rispetto a quella del rigore di bilancio e della “Trojka”. L’Unione europea ha infatti preso atto delle drammatiche conseguenze della crisi economico-finanziaria e dell’insufficienza delle politiche di risanamento per migliorare il tenore di vita di ampi strati della popolazione europea. La Commissione ha dunque avviato nel 2016 un ambizioso progetto di rilancio delle politiche sociali europee, culminato l’11 novembre 2017 a Göteborg con la solenne proclamazione del “Pilastro europeo dei diritti sociali” da parte della Commissione europea, del Parlamento Europeo e del Consiglio dei ministri del lavoro e degli affari sociali dell’Unione. Si tratta formalmente di una dichiarazione interistituzionale priva di effetti giuridici immediatamente vincolanti: e, tuttavia, nella presentazione del documento la Commissione ha indicato i meccanismi attuativi volti ad evitare che quanto in esso contenuto non rimanga un mero flatus vocis.

Anzitutto, i 20 diritti e principi contenuti nel “Pilastro europeo dei diritti sociali” appartengono già all’acquis dell’Ue e delle principali carte europee (Carta sociale, Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), cosicché per gli Stati membri si tratta sovente di obblighi già operanti nell’ordinamento multilivello. Per esempio, la nostra Corte costituzionale ha recentemente valorizzato l’articolo 24 della Carta sociale europea sulla tutela contro i licenziamenti per dichiarare l’illegittimità dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo numero 23/2015 sul punto delle modalità di calcolo dell’indennità per recesso ingiustificato del datore dal cosiddetto “contratto a tutele crescenti”: nessun automatismo legato all’anzianità aziendale, dunque, ma una liquidazione che tenga conto di una pluralità di fattori: anzianità di servizio, certo, ma anche il numero di dipendenti impiegati dall’impresa, la dimensione della stessa, il comportamento e le condizioni delle parti (vedi Corte costituzionale, numero 194/2018).

In secondo luogo, la Commissione, spalleggiata da numerosi Paesi, considera il “Pilastro europeo dei diritti sociali” un progetto prestigioso, volto a riequilibrare la carenza di sensibilità sociale manifestata durante la crisi dai meccanismi della governance economica. Proprio per questa ragione, l’attuazione dei diritti in esso proclamati è affidata, in particolare, ai processi del Semestre europeo, all’interno del quale il pilastro stesso è integrato con un proprio set di indicatori finalizzati a verificare gli avanzamenti degli Stati membri in materia sociale. Insomma, la governance europea non è già più imperniata soltanto su obiettivi economico-finanziari. Gli indicatori sono piuttosto numerosi, e sono raggruppati in 12 aree, a loro volta afferenti a tre macro-aree (pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, mercati del lavoro dinamici e condizioni lavorative eque, sostegno pubblico/protezione sociale e inclusione). Le 12 aree sono: istruzione, competenze e formazione continua, parità di genere nel mercato del lavoro, diseguaglianza e mobilità verticale, condizioni di vita e povertà, gioventù (macro-area “pari opportunità e accesso al mercato del lavoro”); struttura della forza lavoro, dinamiche del mercato del lavoro, reddito, compreso quello da lavoro (macro-area “mercati del lavoro dinamici e condizioni lavorative eque”); impatto delle politiche pubbliche sulla riduzione della povertà, assistenza a bimbi di età inferiore a tre anni, servizio sanitario, accesso digitale (macro-area “sostegno pubblico/protezione sociale e inclusione”). Gli indicatori sono consultabili online, insieme alle elaborazioni e alle graduatorie dei singoli Paesi per ciascun indicatore.

In terzo luogo, la Commissione ha proposto, proprio in attuazione del “Pilastro europeo dei diritti sociali”, alcune direttive che rafforzano i diritti dei lavoratori. La direttiva sul distacco transnazionale di lavoratori, già giunta in porto, rafforza il principio della parità di trattamento tra i lavoratori distaccati e quelli dello Stato ospite (direttiva Ue 2018/957). Sono in dirittura d’arrivo anche la proposta di nuova direttiva sulla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, e quella sulle condizioni minime di lavoro, entrambe già approvate dal Parlamento europeo prima della fine della legislatura. La prima contiene diritti innovativi, come il congedo di paternità di 10 giorni (attualmente nel nostro Paese è di 5), mentre la seconda impone chiarezza nelle relazioni contrattuali di lavoro, stabilendo anche alcune tutele minime (come la fissazione del limite massimo di 6 mesi alla durata del patto di prova; l’obbligo degli Stati membri di adottare misure anti-abusive a favore dei lavoratori a chiamata; il diritto del lavoratore di richiedere al datore la stabilizzazione del proprio rapporto precario e di ottenere da lui una risposta motivata; il diritto alla formazione obbligatoria conteggiata come orario di lavoro e con costi a carico esclusivamente dell’impresa).

Esiste dunque un’altra Europa, diversa da quella arcigna raccontata dai “sovranisti” e da tanti mass e social media, attenta alle ripercussioni sociali dell’integrazione economica e rispettosa del principio di sussidiarietà. Sotto questo secondo profilo, vale la pena di ricordare che buona parte delle iniziative del “Pilastro europeo dei diritti sociali” sono affidate all’implementazione degli Stati membri e dei partner sociali a tutti i livelli, per meglio rispecchiare le diverse tradizioni e sensibilità di relazioni industriali e di welfare state. È importante che questa Europa esca rinvigorita dall’elezione del Parlamento europeo e dal rinnovo dell’esecutivo dell’Ue.

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