Procreazione assistita fra persone del medesimo sesso. Il commento a una recente sentenza

Mario Bassani
Avvocato, Unione giuristi cattolici italiani

procreazione assistita

Il Tribunale di Pordenone in composizione monocratica, con ordinanza 2 luglio 2018 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, 1^Serie Speciale, numero 38), ha sollevato questione di costituzionalità della legge 9 febbraio 2004, numero 40, nella parte in cui non consente a coppie composte da soggetti dello stesso sesso di accedere a tecniche di procreazione assistita. Il dubbio di costituzionalità, essendo rivolto alla norma che prevede sanzioni nei confronti del personale sanitario che pratica questa particolare tecnica, finisce con il configurare una richiesta alla Corte di pronunciare una sentenza additiva: vale a dire, attraverso l’eliminazione del riferito divieto, introdurre nel nostro ordinamento una norma che ammetta la fecondazione assistita fra persone del medesimo sesso.

I profili di ritenuto contrasto con norme costituzionali trovano riferimento, secondo il giudice remittente, nelle seguenti disposizioni della Costituzione: articolo 32, comma 2, perché la maternità deve essere protetta favorendo l’accesso anche con interventi sanitari; articolo 32, comma 1, perché il desiderio di maternità è una componente dell’equilibrio psicofisico che non deve essere turbato da una limitazione; articolo 117, comma 1, in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), per l’irragionevolezza del divieto censurato, avuto anche riguardo al principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione medesima.

È ragionevole il dubbio che si è posto il Tribunale di Pordenone?

Forse lo è secondo una concezione corrente e una certa vulgata, ma non lo è ancora secondo cultura e tradizioni del nostro Paese, e neppure secondo quel diritto vivente che in talune materie la stessa magistratura ha introdotto nell’ordinamento per soddisfare esigenze di giustizia sostanziale. Soprattutto se si considera che il nostro ordinamento è improntato a valori che hanno condotto i Padri costituenti a redigere le norme fondamentali della Carta.

In primo luogo, l’articolo 29 della Costituzione definisce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (sia esso civile che religioso), e non contrasta con questa formulazione l’istituto delle unioni civili fra persone dello stesso sesso introdotto dalla legge 20 maggio 2016, numero 76, perché questa norma detta regole di convivenza assai meno incisive dei diritti e dei doveri fra coniugi e dei genitori verso i figli come elencati nel successivo articolo 30. Ove la Costituzione fa riferimento a genitori, questi non possono ritenersi che quelli che hanno procreato secondo natura, anche se fuori dal matrimonio (articolo 30, comma 2). Come pure il riferimento è ai genitori naturali quando la Costituzione individua diritti e doveri di entrambi nei confronti dei loro figli (primo, secondo, e terzo comma dell’articolo 30).

Occorre anche considerare che il legislatore esercita il suo potere con margini di discrezionalità, se non in palese ed evidente contrasto con una norma di rango costituzionale e il dissenso, lecito in quanto espressione di libera manifestazione del pensiero, non deve tradursi in disapplicazione.

Sembra dunque esser questo uno dei casi in cui il giudice non solo interpreta la legge secondo suoi particolari convincimenti, ma anche tende a promuovere, fuori dal normale processo di produzione legislativa, l’adozione di norme che di questo particolare convincimento siano espressione.

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