La disciplina giuridica della immigrazione dettata dal Trattato di Dublino
di Maria Luisa
MENOZZI CANTELE
avvocato
Il grave problema dell’immigrazione merita di essere conosciuto e approfondito nei suoi diversi aspetti.
Nel lontano 1990, esattamente il 15 giugno, è stata firmata a Dublino l’omonima Convenzione (entrata in vigore l’1 settembre 1997) dai primi dodici Stati firmatari (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito), cui si sono aggiunti in seguito Austria, Svezia e Finlandia.
Obbiettivo della Convenzione di Dublino era quello di garantire ai “rifugiati” un’adeguata protezione, nel rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951 – che ne dava la definizione: «Chi temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole a causa di questo timore avvalersi della protezione di questo Paese» – e del Protocollo di New York del 1967.
La Convenzione è stata poi sostituita dal Trattato di Dublino II, sottoscritto dagli Stati dell’Unione Europea (Ue) nel 2003, modificato nel 2013 e a sua volta rinominato Dublino III.
I cittadini extracomunitari che fuggono dai Paesi di origine perché in guerra o perseguitati per motivi di natura politica o religiosa possono fare richiesta di asilo, come prevedeva la Convenzione del 1990, solo nel primo Paese membro dell’Ue in cui arrivano.
Il migrante ha l’obbligo di registrarsi nel Paese di arrivo, senza poter proseguire per un altro Paese membro. Questo obbligo ha finito per congestionare i centri di identificazione dei Paesi più facili da raggiungere via mare o via terra, come Italia e Ungheria, che sono costretti a trattenere gli immigrati, registrarli e ospitarli.
Il principio del “primo approdo”, con gli avvenimenti che hanno sconvolto i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, non permette di reggere l’aumento dei flussi migratori nei Paesi di prima accoglienza, l’Italia soprattutto.
L’Italia all’articolo 10, comma 3, della Costituzione sancisce il diritto di asilo nel territorio della Repubblica allo straniero al quale sia impedito nel suo Paese «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione». Hanno fatto seguito la Legge Martelli, che ampliava lo status di rifugiato, la legge Turco-Napolitano e il Testo Unico sull’immigrazione 286/1998, tuttora in vigore, la legge Bossi-Fini che ha avuto attuazione nell’aprile 2005.
Il diritto comunitario con la direttiva “Qualifiche” (2011/95/Ce) ha introdotto la figura della “Protezione sussidiaria”, una forma di protezione internazionale a carattere secondario ed integrativo rispetto a quella di asilo politico, che viene riconosciuta al cittadino di un Paese terzo o apolide nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine o nel Paese di domicilio se apolide, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno.
Con il Decreto Legislativo del 21 febbraio 2014, numero 18, entrato in vigore il 22 marzo 2014, in recepimento della Direttiva, si garantiscono ai titolari di “Protezione sussidiaria” gli stessi diritti dei rifugiati in materia di accesso all’occupazione, all’assistenza, all’istruzione, con il rilascio da parte della Questura del permesso di soggiorno della durata di un anno, eventualmente rinnovabile.
In attesa della procedura di riconoscimento, i richiedenti protezione internazionale sussidiaria e umanitaria hanno diritto di soggiornare nel territorio italiano e, se privi di mezzi di sostentamento, di essere accolti nei Centri di accoglienza.
In Italia il sistema prevede una prima accoglienza (gli hotspot e Centri di prima accoglienza) e una seconda accoglienza (gli Sprar – Sistemi di protezione per rifugiati e richiedenti asilo, titolari di protezione sussidiaria e umanitaria).
Gli hotspot in Italia sono i Centri di Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto. Qui i migranti ricevono le prime cure mediche; i migranti che fanno domanda di asilo vengono trasferiti nei Centri di prima accoglienza e da lì nei Centri di seconda accoglienza (Sprar), istituiti con la Legge 189 del 2002, enti non profit che coinvolgono i Comuni che volontariamente decidono di aderire a tale progetto; gli Sprar prestano anche servizi dedicati ai minori non accompagnati e ai disabili.
In mancanza di Centri di seconda accoglienza, le Prefetture indicono gare di appalto per i Cas (Centri di accoglienza straordinari), enti profit e non profit; come gli Sprar, i Cas sono finanziati dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi per l’asilo; la retta giornaliera è di euro 35 a persona.
L’Ue assegna all’Italia un contributo annuo a cui vanno aggiunti i fondi distribuiti dalla Commissione Europea tramite i bandi del Fondo Fami (Fondo asilo, migrazione e integrazione).
Promotrice dello Sprar, insieme al Ministero dell’Interno, è l’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni italiani, con l’obbiettivo di agevolare l’adesione dei Comuni allo Sprar per una accoglienza adeguata e vantaggiosa per tutti sul territorio.
La presenza dei migranti nei Comuni è tuttavia foriera di problemi che non hanno trovato una soluzione legislativa a incominciare dalle difficoltà burocratiche e amministrative che ostacolano l’assunzione al lavoro favorendo le situazioni illegali, il lavoro clandestino, in nero e sottopagato, con gravi conseguenze di scontento sia per gli immigrati che per i residenti.