Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità, coglie anche gli aspetti positivi dei tanti tentativi di integrazione

di Pino NARDI
Redazione

«I bimbi e le donne rom sono le due grandi speranze per un lavoro non solo di integrazione, ma di coesione sociale e di serenità di vita». Don Virginio Colmegna riflette su quanto è difficile essere un bambino rom a Milano. Tuttavia il presidente della Casa della carità coglie anche gli aspetti positivi, quelle luci che vanno alimentate.

I diritti dei bimbi rom sono spesso negati. Eppure esiste una città che si dà da fare…
Sì, alcune realtà di Milano pongono questa attenzione con un atteggiamento positivo. I bimbi rom – dentro una condizione di vita nei campi che sono una bruttura – rischiano di essere schiacciati e appesantiti da questa situazione di emarginazione sia all’interno del nucleo familiare sia per il clima pesante di stigmatizzazione per la loro presenza.

Eppure investire sulle nuove generazioni è strategico…
I bimbi sono una straordinaria risorsa di speranza, a partire da quando li inseriamo a scuola. Lo vedo nella Casa della Carità, dove abbiamo creato punti di riferimento anche per loro. Penso all’esperienza che stiamo avviando con il Conservatorio: abbiamo fatto un incontro l’altra sera con i docenti che suoneranno e i bimbi che andranno a imparare la musica. Quindi vogliamo parlare non soltanto di minori assistiti, ma che hanno invece una capacità di insegnare speranza. Questa è una grande risorsa da valorizzare.

Purtroppo però in larga parte vivono in situazioni disastrose e per niente civili…
Certo, una situazione di degrado vivendo in mezzo ai topi, con abbandoni e continui sgomberi, con la perdita di identità. Se si parte dai diritti dei bimbi cresce la responsabilità sociale, si abbassano le tensioni e si fanno anche progetti seri di coesione sociale e di rispetto. Se si passa sopra questa dimensione si finisce per renderli una categoria marginale, dove a pagare ancora saranno i bimbi.

In questi mesi si sono susseguiti diversi segnali positivi: insegnanti, genitori di bambini italiani che si sono impegnati per accogliere gli amici rom…
Sì, diventa davvero un’esperienza simbolica importante. Eppure va tenuto conto che per esempio nel campo di Triboniano in questo momento ci sono più di 200 minori. Ogni lettera che arriva di sgombero, non sanno dove andare. Gli stessi insegnanti vivono questa situazione. Poi c’è già una fatica a convincere i loro genitori, spesso gli uomini, che la scuola non è mai tempo perso, ma è tempo di futuro per i ragazzi. Se però trovano un clima di estraneità, dove qualsiasi piccolo problema risolvibile diventa tragedia, si appesantisce a tal punto la situazione che non si trovano percorsi di speranza. Ma andare a scuola non basta, perché devono anche riuscire: per questo abbiamo un doposcuola; stiamo provando anche l’università, perché questa esperienza sia positiva.

Una speranza che rischia di essere vanificata quando questi bambini rom diventano adolescenti…
Infatti. Per questo partire soprattutto dai bimbi è decisivo, anche perché quando diventano adolescenti vivono da una parte il dramma di una cultura che li emargina, ma dall’altra loro consumano abbastanza in fretta i "valori" deteriori della nostra cultura consumistica. Nasce una forte preoccupazione – e contro questo cerchiamo di intervenire – che i bimbi diventino strumento e oggetto per chiedere l’elemosina, abbruttendo la loro condizione. Però l’unico modo per superare questo è stare accanto nei campi, promuovere socialità, quasi con un contratto con le famiglie, affrontando il problema della sopravvivenza anche economica del nucleo familiare in termini diversi. Quando i bambini crescono nei campi l’aria che respirano è inquinata: stiamo pensando a una ricerca molto seria per scoprire anche perché tra loro c’è una durata di vita minore degli altri. Le condizioni dei campi deteriorano non solo dal punto di vista sociale, ma anche di salute, educazione e rispetto. «I bimbi e le donne rom sono le due grandi speranze per un lavoro non solo di integrazione, ma di coesione sociale e di serenità di vita». Don Virginio Colmegna riflette su quanto è difficile essere un bambino rom a Milano. Tuttavia il presidente della Casa della carità coglie anche gli aspetti positivi, quelle luci che vanno alimentate.I diritti dei bimbi rom sono spesso negati. Eppure esiste una città che si dà da fare…Sì, alcune realtà di Milano pongono questa attenzione con un atteggiamento positivo. I bimbi rom – dentro una condizione di vita nei campi che sono una bruttura – rischiano di essere schiacciati e appesantiti da questa situazione di emarginazione sia all’interno del nucleo familiare sia per il clima pesante di stigmatizzazione per la loro presenza.Eppure investire sulle nuove generazioni è strategico…I bimbi sono una straordinaria risorsa di speranza, a partire da quando li inseriamo a scuola. Lo vedo nella Casa della Carità, dove abbiamo creato punti di riferimento anche per loro. Penso all’esperienza che stiamo avviando con il Conservatorio: abbiamo fatto un incontro l’altra sera con i docenti che suoneranno e i bimbi che andranno a imparare la musica. Quindi vogliamo parlare non soltanto di minori assistiti, ma che hanno invece una capacità di insegnare speranza. Questa è una grande risorsa da valorizzare.Purtroppo però in larga parte vivono in situazioni disastrose e per niente civili…Certo, una situazione di degrado vivendo in mezzo ai topi, con abbandoni e continui sgomberi, con la perdita di identità. Se si parte dai diritti dei bimbi cresce la responsabilità sociale, si abbassano le tensioni e si fanno anche progetti seri di coesione sociale e di rispetto. Se si passa sopra questa dimensione si finisce per renderli una categoria marginale, dove a pagare ancora saranno i bimbi.In questi mesi si sono susseguiti diversi segnali positivi: insegnanti, genitori di bambini italiani che si sono impegnati per accogliere gli amici rom…Sì, diventa davvero un’esperienza simbolica importante. Eppure va tenuto conto che per esempio nel campo di Triboniano in questo momento ci sono più di 200 minori. Ogni lettera che arriva di sgombero, non sanno dove andare. Gli stessi insegnanti vivono questa situazione. Poi c’è già una fatica a convincere i loro genitori, spesso gli uomini, che la scuola non è mai tempo perso, ma è tempo di futuro per i ragazzi. Se però trovano un clima di estraneità, dove qualsiasi piccolo problema risolvibile diventa tragedia, si appesantisce a tal punto la situazione che non si trovano percorsi di speranza. Ma andare a scuola non basta, perché devono anche riuscire: per questo abbiamo un doposcuola; stiamo provando anche l’università, perché questa esperienza sia positiva.Una speranza che rischia di essere vanificata quando questi bambini rom diventano adolescenti…Infatti. Per questo partire soprattutto dai bimbi è decisivo, anche perché quando diventano adolescenti vivono da una parte il dramma di una cultura che li emargina, ma dall’altra loro consumano abbastanza in fretta i "valori" deteriori della nostra cultura consumistica. Nasce una forte preoccupazione – e contro questo cerchiamo di intervenire – che i bimbi diventino strumento e oggetto per chiedere l’elemosina, abbruttendo la loro condizione. Però l’unico modo per superare questo è stare accanto nei campi, promuovere socialità, quasi con un contratto con le famiglie, affrontando il problema della sopravvivenza anche economica del nucleo familiare in termini diversi. Quando i bambini crescono nei campi l’aria che respirano è inquinata: stiamo pensando a una ricerca molto seria per scoprire anche perché tra loro c’è una durata di vita minore degli altri. Le condizioni dei campi deteriorano non solo dal punto di vista sociale, ma anche di salute, educazione e rispetto.

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