Sofferenze, fatiche e speranze là dove il cristianesimo è nato. Parla padre Andraous Fahmi, vicerettore del Seminario maggiore copto-cattolico del Cairo
Redazione
«Le nostre Chiese sono d’origine apostolica e i nostri Paesi sono stati la culla del cristianesimo. Sono terre benedette dalla presenza di Cristo stesso e delle prime generazioni di cristiani. È chiaro che sarebbe una perdita per la Chiesa universale se il cristianesimo dovesse affievolirsi o scomparire proprio là dove è nato». È quanto si legge al punto 2 (Apostolicità e vocazione missionaria) del capitolo I dell’Instrumentum laboris della prossima assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi (Vaticano, 10-24 ottobre), sul tema “La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”. Nel testo si evidenzia anche la «crisi delle vocazioni» e relative cause come «l’emigrazione delle famiglie, la diminuzione delle nascite» unite alla «mancanza di unità tra i membri del clero, alla formazione umana e spirituale di sacerdoti, religiosi e religiose che talvolta lascia a desiderare», senza dimenticare la necessità di «padri spirituali esemplari».
«Quello delle vocazioni sarà uno dei temi che il Sinodo dei vescovi di ottobre affronterà con attenzione» spiega al Sir padre Andraous Fahmi, vicerettore del Seminario maggiore copto-cattolico di San Leone Magno nel quartiere del Maadi al Cairo.
Padre Fahmi, l’Instrumentum laboris evidenzia «la grave responsabilità di mantenere la fede cristiana della Terra Santa» ed elenca una serie di impegni da parte di vescovi e sacerdoti in questa linea…
Le vocazioni evidenziano cali in Occidente e in Oriente. In Egitto, però, non ne risentiamo molto anche perché nel Seminario maggiore di San Leone Magno nel quartiere del Maadi al Cairo, abbiamo tra i 30 e i 40 seminaristi. Ogni anno celebriamo tra le 3 e le 6 ordinazioni, un bel numero se rapportato ai circa 300 mila fedeli copto-cattolici. I preti in servizio pastorale sono circa 250. Nel prossimo Sinodo non si potrà non riflettere su alcune cause della crisi vocazionale in atto.
Quali sono, a suo parere, le principali cause di questa crisi?
A quelle già delineate nell’Instrumentum laboris affiancherei anche il “dominio” dello spirito laicista – nel suo lato negativo – che sta penetrando man mano anche nella Chiesa, nella vita sacerdotale e religiosa. Mi riferisco a quella cultura dell’egoismo che scoraggia a servire e ad amare gratuitamente. Occorre educare alla spiritualità del sacrificio mostrandone i punti luminosi. Altra causa è la mancanza di un serio rinnovamento nei settori pastorali nella Chiesa, e mi riferisco ad un lavoro ben fatto di studiosi e pastori che in ogni Chiesa locale verificano lo stato della pastorale e i mezzi con cui realizzarla. Questo anche per concepire adeguati piani pastorali. In Medio Oriente le Chiese non sono abituate alla programmazione pastorale che si perde nella rete di culture e riti, penalizzando così anche l’animazione vocazionale.
Uno dei compiti del clero, dei vescovi e dei fedeli è quello di ricercare la comunione tra essi e tra le Chiese, ponendosi come esempio per gli altri. Ritiene che questo Sinodo possa rappresentare un momento di verifica per il clero e per i seminaristi sugli stili di vita finora assunti?
Di certo c’è bisogno di verifica, ma anche di proposte concrete e realizzabili. Più che testi e documenti a riguardo abbiamo urgenza di persone capaci di “leggere” bene la situazione attuale, di pensare a delle soluzioni e cercare di realizzarle. Spero che il Sinodo riesca ad avere una visione chiara sul nuovo modo di formare un prete aumentando gli sforzi per una formazione spirituale moderna e autentica. Sarà utile rivalutare la figura del direttore spirituale, una delle colonne su cui si fonda un seminario. Una figura che sta perdendo la sua reale importanza, relegato, come sempre più spesso accade, all’organizzazione di cerimonie o ritiri. Il Sinodo potrebbe far segnare un’inversione di tendenza tornando a dare a questa figura la sua giusta importanza. Il primo passo è scegliere i preti giusti che possano svolgere tale compito nei seminari e formarli adeguatamente.
Pensa che il Sinodo potrà incidere sulla crisi politico-sociale mediorientale?
Ci sono dei fatti fuori dalla nostra portata ecclesiale. Mi riferisco all’esodo cristiano dall’Iraq o alla crisi israelo-palestinese. Tuttavia, la Chiesa non può fare meno di lavorare localmente cercando di stare in mezzo i suoi fedeli perché non si disperdano. A mio avviso, occorre unire le forze spirituali e sociali di tutta la Chiesa, attivando Commissioni anche a livello internazionale per monitorare quanto accade nella regione. Credo che per il Sinodo sarà molto difficile avere una visione unica sui fatti. I vescovi orientali, pur vivendo nei punti caldi della Regione, non sono in grado di rispondere con immediatezza ai problemi. Per questo spero che dal Sinodo emerga la necessità di una più stretta collaborazione tra i capi delle varie Chiese. «Le nostre Chiese sono d’origine apostolica e i nostri Paesi sono stati la culla del cristianesimo. Sono terre benedette dalla presenza di Cristo stesso e delle prime generazioni di cristiani. È chiaro che sarebbe una perdita per la Chiesa universale se il cristianesimo dovesse affievolirsi o scomparire proprio là dove è nato». È quanto si legge al punto 2 (Apostolicità e vocazione missionaria) del capitolo I dell’Instrumentum laboris della prossima assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi (Vaticano, 10-24 ottobre), sul tema “La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”. Nel testo si evidenzia anche la «crisi delle vocazioni» e relative cause come «l’emigrazione delle famiglie, la diminuzione delle nascite» unite alla «mancanza di unità tra i membri del clero, alla formazione umana e spirituale di sacerdoti, religiosi e religiose che talvolta lascia a desiderare», senza dimenticare la necessità di «padri spirituali esemplari».«Quello delle vocazioni sarà uno dei temi che il Sinodo dei vescovi di ottobre affronterà con attenzione» spiega al Sir padre Andraous Fahmi, vicerettore del Seminario maggiore copto-cattolico di San Leone Magno nel quartiere del Maadi al Cairo.Padre Fahmi, l’Instrumentum laboris evidenzia «la grave responsabilità di mantenere la fede cristiana della Terra Santa» ed elenca una serie di impegni da parte di vescovi e sacerdoti in questa linea…Le vocazioni evidenziano cali in Occidente e in Oriente. In Egitto, però, non ne risentiamo molto anche perché nel Seminario maggiore di San Leone Magno nel quartiere del Maadi al Cairo, abbiamo tra i 30 e i 40 seminaristi. Ogni anno celebriamo tra le 3 e le 6 ordinazioni, un bel numero se rapportato ai circa 300 mila fedeli copto-cattolici. I preti in servizio pastorale sono circa 250. Nel prossimo Sinodo non si potrà non riflettere su alcune cause della crisi vocazionale in atto.Quali sono, a suo parere, le principali cause di questa crisi?A quelle già delineate nell’Instrumentum laboris affiancherei anche il “dominio” dello spirito laicista – nel suo lato negativo – che sta penetrando man mano anche nella Chiesa, nella vita sacerdotale e religiosa. Mi riferisco a quella cultura dell’egoismo che scoraggia a servire e ad amare gratuitamente. Occorre educare alla spiritualità del sacrificio mostrandone i punti luminosi. Altra causa è la mancanza di un serio rinnovamento nei settori pastorali nella Chiesa, e mi riferisco ad un lavoro ben fatto di studiosi e pastori che in ogni Chiesa locale verificano lo stato della pastorale e i mezzi con cui realizzarla. Questo anche per concepire adeguati piani pastorali. In Medio Oriente le Chiese non sono abituate alla programmazione pastorale che si perde nella rete di culture e riti, penalizzando così anche l’animazione vocazionale.Uno dei compiti del clero, dei vescovi e dei fedeli è quello di ricercare la comunione tra essi e tra le Chiese, ponendosi come esempio per gli altri. Ritiene che questo Sinodo possa rappresentare un momento di verifica per il clero e per i seminaristi sugli stili di vita finora assunti?Di certo c’è bisogno di verifica, ma anche di proposte concrete e realizzabili. Più che testi e documenti a riguardo abbiamo urgenza di persone capaci di “leggere” bene la situazione attuale, di pensare a delle soluzioni e cercare di realizzarle. Spero che il Sinodo riesca ad avere una visione chiara sul nuovo modo di formare un prete aumentando gli sforzi per una formazione spirituale moderna e autentica. Sarà utile rivalutare la figura del direttore spirituale, una delle colonne su cui si fonda un seminario. Una figura che sta perdendo la sua reale importanza, relegato, come sempre più spesso accade, all’organizzazione di cerimonie o ritiri. Il Sinodo potrebbe far segnare un’inversione di tendenza tornando a dare a questa figura la sua giusta importanza. Il primo passo è scegliere i preti giusti che possano svolgere tale compito nei seminari e formarli adeguatamente.Pensa che il Sinodo potrà incidere sulla crisi politico-sociale mediorientale?Ci sono dei fatti fuori dalla nostra portata ecclesiale. Mi riferisco all’esodo cristiano dall’Iraq o alla crisi israelo-palestinese. Tuttavia, la Chiesa non può fare meno di lavorare localmente cercando di stare in mezzo i suoi fedeli perché non si disperdano. A mio avviso, occorre unire le forze spirituali e sociali di tutta la Chiesa, attivando Commissioni anche a livello internazionale per monitorare quanto accade nella regione. Credo che per il Sinodo sarà molto difficile avere una visione unica sui fatti. I vescovi orientali, pur vivendo nei punti caldi della Regione, non sono in grado di rispondere con immediatezza ai problemi. Per questo spero che dal Sinodo emerga la necessità di una più stretta collaborazione tra i capi delle varie Chiese.