Il neo cardinale, invitato dall'Arcivescovo a presiedere il tradizionale Pontificale nella solennità dell'Immacolata, ha avuto parole di tenerezza verso la sua città di cui ha evidenziato luci e ombre: «Ha ancora tanta potenzialità da esprimere»

di Stefania CECCHETTI
Redazione

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È stata una celebrazione sentita e commossa quella che si è svolta questa mattina in Duomo per la solennità dell’Immacolata Concezione. Ha cominciato l’arcivescovo Tettamanzi, con il suo affettuoso saluto al neo cardinale Gianfranco Ravasi, da lui invitato a presiedere il Pontificale in segno di ringraziamento e di gioia perché «un altro figlio della Chiesa ambrosiana ha ricevuto il dono della dignità cardinalizia». L’Arcivescovo di Milano ha poi ringraziato il neo porporato per i suoi 44 anni di ministero, definendoli una "diaconìa della Parola": «Ci hai insegnato – ha detto Tettamanzi – a vedere la luce delle Scritture che si riverbera in mille riflessi nelle diverse espressioni della cultura dell’uomo».
Il cardinal Ravasi non è stato da meno in quanto a partecipazione emotiva. Dopo aver ringraziato calorosamente il cardinal Tettamanzi per il messaggio inviato alla diocesi ambrosiana in occasione della sua recente elezione a cardinale («l’augurio più intenso e affettuoso tra quelli ricevuti», ha detto), durante l’omelia ha pronunciato una vera e propria dichiarazione d’amore verso la sua città.
Milano, per Ravasi, è innanzitutto l’insieme dei tanti amici che qui ha lasciato partendo per assumere a Roma l’incarico di Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura: «Entrando in Duomo – ha detto il neo porporato – ho riconosciuto tanti volti. Volti grazie ai quali ritrovo le mie radici, che restano incancellabili». Per questo motivo Ravasi ha tenuto a precisare che non scritto il suo intervento, ma ha preferito parlare "a braccio", proprio come in una conversazione tra amici.
Ma la Milano che Ravasi vuole salutare è anche quella delle numerose autorità presenti: dal sindaco Moratti al presidente della Provincia Podestà, dall’assessore alla cultura Finazzer Flory al Rettore dell’Università Cattolica Ornaghi, da Bazzoli di Banca Intesa a Sangalli della Camera di Commercio. A loro in particolare il neo cardinale si è rivolto sottolineando come Milano possa andare ancora oltre, rispetto a quanto finora ha dato, perché ha grandi potenzialità di intelligenza e di cuore.
Sull’ambivalenza di luci e ombre sulla città Ravasi ha incentrato tutta l’omelia, a partire da un suggestivo "focus" su due semplici immagini tratte dalle letture, «un dittico ideale declinato tutto al femminile». La prima immagine è il quadro oscuro del serpente tentatore nell’Eden e la donna protagonista è Eva, «colei da cui discende il fiume della vita». Il serpente, fa notare Ravasi, «è il simbolo del male, di quel mistero tenebroso che avvolge la nostra esperienza umana». Anche Milano, ha proseguito Ravasi, «ha su di sé un sudario di sofferenza, come una notte che l’avvolge. Nella nostra, come in tutte le città, ci sono i bassifondi, dove si agitano gli spettri del male». Eccoli: si chiamano solitudine, indifferenza reciproca, odio, paura dell’altro.
Un tema, quest’ultimo, particolarmente sentito dal nostro Arcivescovo e sul quale Ravasi non ha voluto rubare la scena: «La paura del diverso, in tutte le sue molteplici forme, – ha infatti sottolineato – è difficile da vincere. Per questo il cardinal Tettamanzi spesso è intervenuto per arginarla, perché sa quanto male possa generare». C’è un serpente che si agita nella nostra storia, ha concluso Ravasi, e noi non dobbiamo tirarci indietro, dobbiamo entrare con coraggio in questa battaglia permanente tra il bene e il male.
La seconda immagine evocata dal neo porporato è stata invece un’immagine di luce, quella evangelica di Maria «piena di grazia» che viene salutata dall’angelo. «Va riconosciuto – ha detto Ravasi – che nella storia sono presenti anche tanti raggi di luce. Sono l’amore e la carità che attraversano le nostre comunità. È la bellezza di cui Milano è piena, a partire dal suo Duomo. È la vita stessa: se è vero che in una città ad ogni ora c’è qualcuno che muore, è probabile che in questo stesso momento ci sia una nascita o due persone che si stanno innamorando. Spesso ignoriamo l’importanza della tenerezza, che invece dà calore e colore alla nostra esistenza».
E con questo invito alla città a liberarsi dalle tenebre e immergersi nella luce Ravasi ha concluso la sua omelia, non senza aver ancora avuto parole commosse – di tenerezza, appunto – verso la sua città: «Sono felice di essere qui, nel Duomo che ha visto i miei inizi di sacerdote e dove tante volte ho celebrato, nello scurolo di San Carlo. Di questo santo io porto l’anello sempre con me. Questo pomeriggio farò ritorno a Roma e sarò di nuovo lontano da voi, da queste strade del centro che amavo percorrere quando ero all’Ambrosiana. Vi lascio con un saluto personale e, perché non sia troppo commosso, rubo le parole che il filosofo cinquecentesco Bernardino Telesio ebbe per la sua città: "La mia diletta città potrebbe benissimo fare a meno di me, ma sono io che non posso fare a meno di essa, perché essa mi scorre nelle vene e mi pulsa nel cuore"»..

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