Si celebra da 25 anni per riaffermare l’attenzione alla sofferenza e l’impegno al servizio della vita più fragile. Don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, traccia un bilancio e guarda al futuro

di Giovanna PASQUALIN TRAVERSA

ospedale

L’11 febbraio 1993 si è svolta a Lourdes la prima Giornata mondiale del malato, istituita l’anno precedente da Giovanni Paolo II. Nella cittadina sui Pirenei si svolgerà, sempre l’11 febbraio, anche l’edizione 2017, la 25ª, sul tema «Stupore per quanto Dio compie: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente…”». L’anniversario coincide con il 20° di creazione dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. In occasione della duplice ricorrenza, il 10 febbraio papa Francesco ha concesso un’udienza particolare alla Commissione episcopale per il servizio alla carità e la salute, all’Ufficio nazionale e alla sua Consulta, ai direttori degli uffici diocesani. Don Carmine Arice, della Società dei sacerdoti del Cottolengo, è direttore dell’Ufficio nazionale della Cei e membro della Pontificia Commissione per le attività del settore sanitario delle persone giuridiche pubbliche della Chiesa. Gli abbiamo chiesto di tracciare un bilancio dei 25 anni della Giornata e di delinearne le prospettive.

Don Arice, sono stati raggiunti gli obiettivi indicati nel 1992 da Giovanni Paolo II?

«Dal punto di vista del progresso della ricerca, della medicina e dell’assistenza ai malati molto è stato fatto; tuttavia nell’ultimo decennio c’è stato un impoverimento nella capacità di garantire le cure alle fasce più deboli della popolazione e milioni di italiani vi hanno rinunciato. Si è instaurato il circolo vizioso crisi economica – povertà – povertà sanitaria – aumento malattie. Il rischio è che i tagli alla spesa sanitaria si rivelino più “onerosi” dei costi che sosterrebbe lo Stato garantendo l’accesso alle cure per le fasce più indigenti».

E dal punto di vista pastorale?

«In questi 25 anni quasi tutte le diocesi hanno istituito l’Ufficio pastorale della salute. Mentre in precedenza l’animazione era affidata al cappellano o al prete, oggi vi sono coinvolti laici, diaconi, Ministri straordinari della Comunione. Primo soggetto di pastorale è tutta la comunità cristiana e questa pastorale riguarda in modo sinergico anche le altre pastorali che si prendono cura dell’uomo nella sua interezza».

Una pastorale inclusiva e integrata sul territorio?

«Sì. Senza tralasciare gli ospedali, il luogo in cui è necessario svilupparla ulteriormente è proprio il territorio. La maggior parte dei malati e dei disabili vive in casa. Strategico il ruolo di famiglie religiose e parrocchie di cui occorre valorizzare ancor più le risorse mettendole in rete».

Tagli alla sanità che portano 11 milioni di italiani a rinunciare a curarsi, cambiamenti nello “statuto” della medicina… In questo orizzonte quale ruolo si delinea per la Chiesa?

«Avremo di nuovo bisogno di opere-segno capaci di rispondere alle necessità reali e disattese delle fasce più deboli, come quelle dei grandi fondatori Giovanni di Dio, Camillo de’ Lellis, Giuseppe Cottolengo. Il nostro compito è duplice: essere profezia e coscienza critica rispetto alle responsabilità della comunità civile, e al tempo stesso offrire segni di speranza attraverso opere di misericordia concreta. Oltre alle mense, molte diocesi hanno moltiplicato gli ambulatori e in diverse case di riposo tenute da religiose sono state realizzate realtà di primo soccorso per i più poveri. Dobbiamo però tenere presente che, come ricorda spesso il Papa, non siamo una Ong. Al numero 200 di Evangelii Gaudium, Francesco avverte che la “peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale”. Siamo chiamati a preoccuparci del loro bisogno di Dio».

Forse la Chiesa dovrebbe avere anche la capacità di anticipare gli scenari futuri…

«La Chiesa ha sempre avuto una parola sapienziale su salute e fragilità. Occorre continuare ad avere queste antenne. È soprattutto di anziani che dovremo occuparci nei prossimi anni, e mi viene in mente quando, in tempi non sospetti, Paolo VI cominciò a parlarne come di povertà emergente. Altro tema “caldo” le questioni bioetiche e del fine vita».

A questo riguardo, nel Messaggio per la Giornata 2017, il Papa sottolinea l’importanza di diffondere una cultura rispettosa della vita, dell’integralità e della dignità della persona. Anche i vescovi, nel Consiglio permanente appena conclusosi, hanno espresso preoccupazione per il Ddl sul fine vita all’esame della Camera…

«Non possiamo condividere il testo del provvedimento così com’è, e non per motivi confessionali ma in nome di una visione sana della vita che non può accogliere un principio di autodeterminazione esasperato che impoverisce la figura del medico riducendolo a meccanico esecutore di volontà senza la possibilità di “accompagnare” in alcun modo la decisione».

Nel mondo le strutture sanitarie cattoliche sono 120 mila; in Italia se ne contano 262. Hanno ancora ragion d’essere? Quale il loro identikit?

«Appartengono all’identità della Chiesa e si inseriscono all’interno del tessuto statale assumendo diversi ruoli operativi, ma dovranno essere in grado di riposizionarsi continuamente. Cinque i tratti che devono caratterizzarle: percorsi di eccellenza, cura integrale del malato, opzione preferenziale per i poveri, rispetto e promozione dei valori etici, cura e accompagnamento pastorale dei malati».

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