Lo sviluppo tecnologico accresce le potenzialità delle diagnosi e degli interventi, ma allo stesso tempo può indebolire la relazione tra medico e paziente. Come valorizzare la meccanicizzazione della professione senza perdere di vista la dimensione umana?
Si può parlare di corpo umano secondo molteplici punti di vista: biologico, sociologico, etico e antropologico. Tutti questi aspetti sono evidenti nel rapporto quotidiano di cura tra medico e paziente. Negli ultimi anni è stata rivista la sensibilità corporea ed emotiva di questa relazione. Il controllo delle proprie emozioni è per chirurghi e rianimatori una sfida quotidiana fatta di gesti attenti e meccanici, in cui a volte l’errore può essere fatale. Accade, quindi, che un mestiere come quello del chirurgo – dal greco cheir, mano – possa sacrificare il contatto con il corpo del paziente con l’uso di arti metallici di un robot che sostituiscano le sue mani in un lavoro più accurato e di massima precisione.
Il medico abbraccia le nuove tecnologie per ottimizzare la riuscita del processo di diagnosi e dell’intervento chirurgico a favore dei propri pazienti, con cui, però, può venire meno il tatto e, quindi, la concreta percezione della relazione. L’allontanamento dell’elemento corporeo nella cura medicale si deve soprattutto alla tecnologia più moderna, ormai elemento indispensabile nella pratica clinica: grazie a sistemi di trasmissione di dati digitali sempre più potenti e efficienti, la medicina e la chirurgia si fanno “a distanza”. Il bravo chirurgo, però, sa recuperare il valore della cura nella terapia, valorizzando la dimensione umana unita alla meccanicizzazione della professione, ricercata attraverso strumenti diagnostici sempre più complessi e di precisione.
Duecento anni fa, nel 1816, fu l’invenzione dello stetoscopio da parte del medico francese René Laennec ad allontanare l’orecchio del dottore dal torace del paziente, attraverso la mediazione di uno strumento. Oggi il contatto tra il corpo del medico e del paziente diventa “artificiale” con i computer che lo rendono “virtuale”. Così, spesso, può capitare che negli ambulatori si passi più tempo a guardare gli schermi dei propri pc che a osservare i pazienti e che siano le macchine e non il corpo a guidare la loro diagnosi. Ma se il corpo del medico tende a eclissarsi, cosa accade, invece, a quello del paziente? Nei laboratori biomedici è un semplice dato: un enzima malfunzionante, una proteina alterata, un gene mutato. E tanto più ci avviciniamo alla conoscenza del “micromondo” della biologia e della genetica, tanto più perdiamo di vista il corpo del paziente nella sua interezza e la dimensione olistica del malato.
Occorre, quindi, una riflessione più attenta e accurata su quanto si può fare perché la tecnologia e la ricerca biomedica non creino distanza tra artificiale e naturale, fra cura e terapia, ma anzi possano essere strumenti efficaci che potenzino la complicità e la fiducia tra medico e paziente. E questo recupero della dimensione umana della cura dipende esclusivamente dall’uomo, non dalle macchine.
di Cristina MESSA Rettore, Università di Milano-Bicocca
e MICHELE A. RIVA, Storico della Medicina, Università di Milano-Bicocca