La riflessione sui concetti di corpo e cura prosegue quella partita il 24 ottobre sulla tematica generale «Naturale/Artificiale» e sull’influenza della tecnoscienza, oltre che sulla nostra esistenza, anche su mentalità e cultura
di Luca BRESSAN
Vicario episcopale
Naturale/Artificiale: continua il nostro viaggio dentro il cambiamento d’epoca che fa da cornice alle nostre vite, accelerando e trasformando culture, rappresentazioni, valori e legami (religioso compreso). Il secondo appuntamento dei «Dialoghi di vita buona» (martedì 21 febbraio) ha intenzione di riproiettarci dentro questa problematica proseguendo la riflessione accesa lo scorso 24 ottobre, focalizzando il dibattito su due snodi cruciali: i concetti di corpo e di cura. Uno psichiatra, un sindacalista e un biblista ci faranno da guida in questo intrigante quanto insolito viaggio.
Il mondo della cura, in tutte le sue dimensioni e significati (educativo, medico, produttivo, istituzionale, religioso), è uno dei luoghi più coinvolti e toccati dalla rivoluzione digitale e scientifica in atto. Le scoperte nel mondo genetico che si traducono in nuovi farmaci; i protocolli che stanno rivoluzionando la gestione e l’organizzazione degli ospedali e degli istituti di cura possono essere assunti come il sintomo di una evoluzione (uno scivolamento?) che sta interessando questo concetto, e in modo analogo tutto il modo di approcciarsi alla malattia intesa come esperienza umana: più aumenta il livello della competenza, maggiormente diminuisce la capacità di interazione, la possibilità di un legame che trasformi quella condizione in una esperienza, una tappa di maturazione umana. La lingua inglese, con i due differenti vocaboli cure e care, rende bene questa evoluzione: stiamo passando dalla cura come relazione (tra esseri umani) alla cura come attività scientifica (che richiede una relazione meno intrigante e meno impegnativa, una semplice interazione tra oggetti).
L’indebolimento del concetto di cura può essere fotografato anche nelle trasformazioni prodotte nel mondo del lavoro: la figura dell’homo faber è sempre meno presente nel nostro immaginario, sostituita da una concezione che vede il lavoro come semplice strumento per acquisire risorse (denaro) da poter spendere negli spazi restanti della nostra vita. «Lavorare con cura», «avere cura del proprio lavoro» sono espressioni quasi dimenticate dalla nostra lingua, ricordo di un accostamento quasi religioso al mondo del lavoro che ormai appartiene a un passato che non c’è più. Oggi il rapporto con il proprio lavoro è più freddo, tecnologico e razionale; misurato da molti indicatori di efficienza, ha certamente maggiori capacità e qualità tecniche produttive, ma non è più vissuto come luogo di realizzazione umana, come produttore di qualità umane.
Come la malattia anche il rapporto uomo-lavoro, privato della dimensione della cura, interviene a modificare l’esperienza che ognuno di noi fa del proprio corpo. Per tanti versi il corpo fisico viene percepito come un’appendice, un semplice strumento aggiuntivo nei processi e nei legami che consentono a ognuno di noi di percepirsi e di scoprirsi come soggetto. I mutamenti che l’ingresso della tecnoscienza sta producendo sulle culture occidentali obbliga a riprendere e rideclinare la relazione soggetto-corpo, relazione fondamentale per ogni individuo, attraverso la quale scriviamo nella storia le nostre identità. Il corpo è il luogo dove si sperimenta il desiderio, dove si apprende la vita. Il corpo è lo spazio grazie al quale sviluppiamo una conoscenza complessa del mondo, capace di toccare il reale. Siamo soliti definire una simile esperienza con l’aggettivo “religiosa”.
Per noi cristiani la sfida è lanciata: in questo mondo dominato dalla tecnologia riuscire a raccontare la nostra fede nella resurrezione dei corpi come definitivo grande gesto di cura che Dio ha nei nostri confronti non è soltanto una questione di nuova evangelizzazione; è un modo sorprendente di rendere ragione della fede che ci abita, una fede capace di leggere e interpretare il cambiamento d’epoca, restituendoci quella integralità dell’esperienza umana che la brusca accelerazione scientifica impressa alla nostra conoscenza corre il rischio di farci smarrire.