Docente universitario ed esperto di tematiche sanitarie, rileva: «L’essere umano è sempre oltre e “altro” rispetto alla malattia. Occorre prendersi cura di lui nella sua integralità»
di Annamaria BRACCINI
È un tema attualissimo e dibattuto, quello del secondo appuntamento del secondo ciclo dei «Dialoghi di Vita Buona». Gli sviluppi sbalorditivi delle biotecnologie e delle neuroscienze impongono infatti, una riflessione comune, il più possibile allargata e capace di coinvolgere differenti modi di vivere e di pensare. Come è del resto nella mission dei «Dialoghi», questa volta impegnati sottolineare il concetto del confine, sempre più sfrangiato, tra ciò che naturale e quanto è costruito dall’uomo. «Oggi i rapporti tra natura e cultura sono molto labili, soprattutto perché negli ultimi cinquant’anni i progressi dell’ingegneria genetica sono stati davvero strepitosi – premette subito Carlo Mario Mozzzanica, docente universitario, esperto nei comparti della sanità e autore di numerosi saggi ultimamente centrati sul “prendersi cura” -. La biologia rigenerativa è in grado infatti di sostituire e rimpiazzare le cellule e i tessuti lesi e la biologia sintetica tende a costruire organismi completamente nuovi, diversi, come si usa dire, “dalla testa ai piedi”».
Qual è il modo corretto di porsi davanti a nuovi scenari inimmaginabili fino a poco tempo fa?
Personalmente ritengo che si debba quotidianamente riconoscere quella che il cardinale Scola chiama «l’esperienza del reale», quindi, un approccio in qualche modo fenomenologico e descrittivo alla persona. Non c’è solo la cura della malattia o la cura del malato: occorre un care, un prendersi cura della persona nella sua integralità.
Come farlo?
La persona, nel suo riconoscimento esistenziale, è sempre oltre e “altro” dalla malattia, altrimenti rimane schiacciata dai propri sintomi. Questa è la sfida, al di là delle nuove opportunità. Occorre guardare all’uomo odierno – che non solo vuol poter fare da sé, ma ormai vuole potersi fare da sé -, nell’ottica dell’umanesimo.
È una sfida aperta?
Certo. Non a caso è una sfida che, credo molto opportunamente, i «Dialoghi» affronteranno, ponendosi il problema nell’ottica della sua irriducibilità esperienziale, fattuale, dell’essere persona. Bisogna continuare a comunicare che noi siamo sempre oltre, altro, al di là anche della malattia. Questa è la trascendenza soggettiva della persona.