Prendere in mano una corona è come aggrapparsi a qualcosa. E ci sentiamo più sicuri. Ecco una riflessione che ci introduce a quella preghiera, che è la più difficile, e anche la più facile. Tante voci rispondono ad altre, come un’eco, salendo verso le volte della chiesa o propagandosi per le piazze e nei cortili

di Marco BALLARINI
Dottore della Biblioteca Ambrosiana, direttore della Classe di studi di Italiani

rosario

Torna maggio, di nuovo; con tutta una messe di ricordi tra i più cari. E di nuovo tornano a scorrere i grani del Rosario, anche tra le dita di chi non lo recita proprio tutti i giorni. Prima uno, poi l’altro, poi un altro ancora e le «Ave, Maria» si susseguono; si muovono quasi involontariamente le labbra senza che si oda un suono, quando lo si recita da soli in casa, per strada, sul treno; oppure tante voci rispondono ad altre, come un’eco, salendo verso le volte della chiesa o propagandosi per le piazze e nei cortili.

È la preghiera più difficile, e anche la più facile; la possono recitare anche i bambini, che magari poi si addormentano, ma nel Signore. Prendere in mano una corona è come aggrapparsi a qualcosa. Non sappiamo nemmeno bene che cosa, ma ci sentiamo più sicuri, come se qualcuno ci tenesse per mano.

È una preghiera, il Rosario, che sembra tradirci sempre, e in realtà non ci tradisce mai. Incominciamo, pieni di buona volontà, pensando alle parole del «Padre nostro», poi a quelle dell’angelo che entra nella penombra e nel silenzio orante di quella casa, e di quella vita, a dire: «Ave, piena di grazia, il Signore è con te». E Lei, una ragazzina, che stupisce, si interroga e dichiara, definitivamente, la propria appartenenza al Signore: «Eccomi, sono la Sua serva».

Poi, poco dopo, spesso dopo molto poco, i pensieri vagano e nel Rosario entrano… mah, a me sembra che entri la vita, la nostra povera vita di ogni giorno. Entrano le cose da fare, le persone che ci hanno chiesto qualcosa, magari proprio di pregare per loro, entrano i nostri che sono già con il Signore, entrano le gioie e le sofferenze, piccole e grandi, di casa nostra e del mondo intero, tutto raccolto in quelle «Ave, Maria» che continuano a invocarla, tanto che Madre di tutte le grazie, e Madre presente in tutte le disgrazie La possiamo chiamare.

Ci sembra di essere usciti dalla preghiera del Rosario, ma in realtà ci siamo ancora dentro, interamente, perché il Rosario è dove c’è Lei e Lei, Maria, ci ha seguito: nelle nostre cose da fare, dalle persone che ci hanno chiesto qualcosa, in tutte le gioie e le sofferenze piccole e grandi, di casa nostra e del mondo intero; i nostri, poi, che sono con il Signore, sono sempre con Lei. Perché, dove volete che vada una madre? Una madre va sempre, col cuore, dove stanno i suoi figli.

E intanto è cambiato il Mistero; non dobbiamo più pensare all’angelo che La saluta e La chiama «piena di grazia», ma al piccolo Giovanni che esulta nel grembo di Elisabetta al suono della voce di Maria. O addirittura della gioia di Elisabetta non ci siamo nemmeno accorti, e siamo già a Gesù che nasce nella grotta di Betlemme, mistero grande che più grande non si può: il Figlio di Dio fatto bambino come uno dei nostri, un bambino da scaldare, da nutrire, da amare soprattutto.

E ci dispiace: ancora, come sempre, distratti; ci arrabbiamo, quasi. E Lei sorride, e mormora: «Rimani in pace e continua a far scorrere i grani, stai aggrappato al Rosario, io ti seguo».

O santa Maria, sei davvero la benedetta fra tutte le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Prega per noi, adesso e nell’ora oscura della morte, Madre di tutte le grazie e Madre presente in tutte le disgrazie. 

 

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