“Il primo di dicembre è stata la giornata mondiale dell’AIDS, evento tanto sentito nell’Africa sub-sahariana quanto fatto passare sotto silenzio da questa parte del mondo”. Così inizia la riflessione di Maria Letizia Antognazza, laica missionaria rientrata dallo Zambia.
Redazione
Il primo di dicembre è stata la giornata mondiale dell’AIDS, evento tanto sentito nell’Africa sub-sahariana quanto fatto passare sotto silenzio da questa parte del mondo.
Riconosco di essere spesso restia a parlare della mia esperienza africana…quello che ho vissuto, i volti che ho incontrato e che per me sono diventati una sorta di famiglia mi costringono spesso a tenere un’intimità rispettosa di esperienze, fatiche, confidenze che difficilmente sento di poter condividere senza violare l’intimità di questi rapporti…
Ma qualche settimana fa mi è arrivato un messaggio che mi ha gelato il sangue e che mi ha fatto decidere di sedermi ad un computer per scrivere. Mulenga, che oggi ha 23 anni, sta male – dicono – vuole andare al villaggio e nella tradizione zambiana se sei malato e decidi di andare al villaggio lo fai per andare là a morire e questo l’ho imparato bene…
Quante persone, ben note o appena conosciute sono morte così, giovani, giovanissime, di una malattia che fino a poco tempo fa non conosceva neppure una cura palliativa in un Paese come lo Zambia. L’incidenza ufficiale in questi Paesi supera il 15% ma chi vive con la gente sa bene che i dati ufficiali sono tristemente ottimistici perché le persone infette sono più di una su 6.
L’AIDS è una malattia terribile, ti mangia poco a poco, impari a riconoscerne i segni ma non sempre sai che c’è una cura. Fino a qualche anno fa nessuna delle persone che conosco si sarebbe mai fatta testare se avesse sospettato d’essere sieropositiva. Senza una cura, l’essere dichiaratamente malato significava la morte sociale prima ancora di quella fisica e allora in molti hanno rifiutato il test, anche tra persone che ho conosciuto, con cui ho condiviso un pezzo di strada, e che – inevitabilmente – ci hanno lasciato.
L’AIDS è una malattia terribile, resa peggiore quando ti mancano i farmaci per le infezioni opportunistiche o per la “terapia del dolore” e così soffri sempre più fino a quando il tuo corpo cede.
Misosi è la prima che ho visto morire di AIDS. Non mi leverò mai la sua immagine dagli occhi, dalla mente, dal cuore. Lei l’AIDS l’aveva presa per trasmissione verticale – si ipotizza – cioè da sua madre che col dono meraviglioso della vita le aveva lasciato anche l’eredità pesante di una malattia che non dà scampo.
Quando Misosi stava male mi avevano consigliato di non farle nessuna iniezione per bloccarle il vomito. Era ormai pelle e ossa, coricata per terra in una stanza buia. Mi era stato spiegato che sarebbe stato più il dolore dell’iniezione su quel corpo martoriato che il beneficio che un fisico debilitato ne avrebbe tratto. “Portale del cioccolato e dagliene un po’, non ha molto da vivere, che mangi qualcosa che le piace”. Ricordo l’angoscia nello spezzare un pezzo di cioccolato che era sempre troppo grande per la capacità che lei aveva di aprire la bocca. “Dàlle mezza bustina di aulin per volta, non avete altro, la sofferenza diventerà peggiore di questa, è bene non assuefarla con l’unico farmaco che avete, bisogna affievolire il dolore lentamente, si chiama terapia del dolore”. Io non ne sapevo nulla. Quando scegli di partire per andare dall’altra parte del mondo non fai il calcolo della sofferenza che troverai, di quello che dovrai vedere, gestire fuori e dentro di te. Non sapevo bene cosa fosse l’AIDS, non più di quelle quattro cose che sanno tutti qua intorno, non sapevo cose fosse il CD4 per capire lo stadio della malattia, non conoscevo le resistenze, gli anti retro virali, non sapevo bene cosa fosse la terapia del dolore.
Chanda è venuto una mattina, prima delle 6, a bussare alla mia porta. Misosi era morta, era sabato. Coi suoi compagni di classe siamo andati in processione a casa, come si usa lì, cantando un canto che è un lamento sussurrato, in cui si invoca la discesa della pace. Tutti in fila, le donne avvolte in un telo, il chitenge, che in questo caso è segno di lutto, il capo coperto, tra le mani una bibbia. Ci si leva le scarpe, le donne entrano in casa, gli uomini rimangono fuori. Dopo aver stretto la mano, quasi inginocchiandosi, davanti a ciascuna donna che già c’è nella casa ci si siede per terra, con le gambe allungate. Tutto è un rituale, tutto va rispettato. Uno comincia un canto, poi la lettura della Bibbia, seguiamo un programma che abbiamo scritto insieme prima di metterci in cammino per la strada piena di polvere, tutti pregano, non importa la confessione a cui si appartiene, tutti pregano e basta, tutti insieme, cattolici, battisti, anglicani, membri della chiesa unita dello Zambia, altri della Salvation Army, non c’è distinzione, è morta Misosi e si prega per lei e per chi rimane qui.
Molto più spesso che in Italia, in Zambia mi sono resa conto che la morte è parte della vita, ma ovunque la sofferenza e il distacco sono duri e la consapevolezza maggiore della presenza della morte non è una compagna sufficiente per affievolire il dolore. In Zambia ho visto morire persone che qua mai sarebbero finite così, con tanta sofferenza, di fronte all’impotenza totale ed assoluta di chi gli era accanto anche per mali perfettamente curabili.
Mulenga alla fine è stato accolto alla missione, è uno dei “nostri primogeniti” e si fa di tutto per chi è tuo figlio o tuo fratello. Ha fatto l’esame del CD4, si aspetta l’esito nella speranza di poter entrare in cura, sperando che non sia troppo tardi.
Vorrei che questo primo dicembre non calasse il silenzio su questo dramma che a molti sembra tanto lontano, solo una statistica, dei numeri sul giornale. Vorrei dare volto a chi si trova a dover fare i conti tutti i giorni con questa malattia, sono più di quanti possiate immaginare, e molti di loro – forse – moriranno troppo presto. Non ci sarà dato di fare molto, ma almeno non dimentichiamoli…