Suor Cristiana Dobner, teologa carmelitana scalza, sul «dono immenso del corpo e del sangue del Signore Gesù»: «Cogliere in quel pezzo di pane la Sua presenza»
di Cristiana DOBNER
Teologa carmelitana scalza
A Israele pellegrino nel deserto l’Altissimo donò come cibo la manna. Fu un cammino lungo sulla via per giungere alla Terra promessa.
Anche noi siamo pellegrini, non per amarcord o per atteggiamento nostalgico e ripetitivo, quanto per portare a memoria la radice fondante della fede. Cammino radicato nella storia del nostro secolo, della nostra esistenza, dei luoghi in cui, giorno dopo giorno, viviamo da cittadini del mondo.
Proprio dal nostro procedere scaturisce l’incarnazione nel tempo della nostra fede. Non siamo gettati – non si sa bene da quale filosofia alienante o da bizzarro destino indefinito in mano a un pantheon di dei – in un gorgo che ci travolge: dal momento in cui apriamo gli occhi alla storia fino a quando definitivamente li chiudiamo. Siamo dono d’amore di Dio ai nostri genitori e dono all’umanità intera. Bisogna scoprirlo, accettarlo e amarlo.
Il Misericorde, il Dio che ha gli uteri, come Egli stesso si è detto, donandoci il Suo Nome, El Rahum, ci ha rivelato, ci ha generato e continua a generarci. La Sua mano ci sorregge, ci indica le tappe e le percorre con noi. Senza magari che lo percepiamo.
La realtà, con tutte le difficoltà che troppo spesso comporta, può essere trasfigurata, non dimenticata o rimossa, ma portata al suo compimento. Da noi e attraverso di noi. Diventiamo artefici del nostro presente, plasmiamo il nostro futuro.
Se siamo autoreferenziali, ci chiudiamo in un buco da cui non riusciamo più a uscire, un inghiottitoio senza scampo. L’autoreferenzialità può essere sconfitta e riportata a un richiamo, fuori di noi indubbiamente, ma che dimora dentro di noi da sempre: siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza.
Il Battesimo ci ha donato un sigillo di vita Trinitaria che attende l’ascolto, il nostro farlo proprio nella vigilanza e nella custodia.
Il credente non muove i suoi passi in circolarità, in un eterno ritorno che produce vertigini e risulta inconcludente, perché si ritroverebbe sempre sui suoi passi. Miserabilmente sui suoi passi.
Il credente conosce la sua mèta: il Volto di Dio, che ci accoglierà al traguardo del cammino.
Non riusciremmo però a sopravvivere se il sigillo non potesse farsi carne, giorno dopo giorno, e allora abbiamo bisogno del dono immenso del Corpo e del Sangue del Signore Gesù che si è fatto pellegrino con noi e per noi.
Un Pellegrino che sfora i secoli e li sfida rimanendo in silenzio, in un’assenza d’intervento per chi non ha occhi e non sa cogliere in quel pezzo Pane la Sua Presenza, che penetra tutto e tutti e conosce un solo desiderio: portare al Padre.
Certamente la processione può sembrare un rituale di tempi andati, quando il popolo non aveva altri mezzi di aggregazione; può prestare il fianco all’obiezione dell’imbonimento e della pubblicità. In tempi, come i nostri, abituati a cortei e a manifestazioni di ogni tipo, a sfilate che agglomerano proteste di ogni ordine, è un anacronismo la processione del Corpus Domini?
Chiaramente dipende dall’animo di chi partecipa e di chi non partecipa. A questi ultimi rimane, se esiste nella loro educazione, almeno la categoria del rispetto, l’accettazione di un evento che non rivendica, non distrugge e non massacra.
Ai primi è richiesto di ritenersi poveri viandanti che hanno assoluto bisogno del Pane per proseguire nel loro cammino, non per esaltazione, ma per adesione: il camminare nelle strade dell’uomo è insieme un camminare di Dio nelle strade dell’uomo e per le strade dell’uomo, donando luce, certezza, aiuto, imparando a generare atti di misericordia.
Senza clamore, senza frastuono, senza esibizionismo. Seguendo il Misericorde, che ci ha amato fino a restare con noi in un pezzo di Pane, perché noi si diventi Pane per gli altri.