Celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo all’Istituto di Cesano Boscone attiva dal 1896 sul fronte dell’assistenza alla disabilità, prima con i bambini e poi anche con gli adulti
di Claudio URBANO
«Ciao Luigi! Come va oggi?». Arrivando a Cesano Boscone, al bar proprio di fronte all’entrata di quella che ormai da 120 anni è la sede della Sacra Famiglia, si capisce che questa è estesa ben al di fuori dello spazio fisico delle sue mura. Qualche ospite è infatti appena uscito per prendere un caffè, e «sanno riconoscere se è buono o no», scherza la ragazza al bancone. Una volta negli ampi spazi della struttura, gli operatori spiegano che per alcuni disabili ospitati qui, anche andare al bar da soli è un importante passaggio nella loro terapia, verso una maggiore abilità e autonomia.
Da quando è stata fondata, nel 1896 sempre a Cesano Boscone, la Sacra Famiglia ospita infatti persone con diversi gradi di disabilità, sia fisica, sia psichica. Il suo fondatore, don Domenico Pogliani, inviato come parroco dal centro città a questo Comune della campagna milanese, iniziò l’opera come un servizio di assistenza agli anziani che le famiglie contadine non erano in grado di curare. Il suo successore, don Luigi Moneta, spiegava che sono i disabili – che qui vengono chiamati non pazienti, ma ospiti – i veri padroni di casa.
Una visita tra i giardini delle varie unità, dove passeggiano alcuni ospiti, fa capire che lo spirito di carità dell’istituto non è cambiato, anche adesso che la Sacra Famiglia assiste oltre 9 mila persone, e dispone di 1900 posti letto tra strutture residenziali, di degenza e alloggi protetti, in quasi venti strutture tra Lombardia, Piemonte e Liguria.
Il presidente, don Vincenzo Barbante, ricorda il senso dell’assistenza. Una cura che non è solo materiale e sanitaria, ma che per gli ospiti diventa, a tutto tondo, «un sostegno nel percorso di realizzazione di sé». Per i disabili ospitati qui, dai più piccoli agli anziani affetti da autismo, da altre sofferenze psichiche, da deficit fisici o da malattie degenerative come la Sla o l’Alzheimer, spesso non si tratta di cercare una cura per tornare alla salute (come avviene per una comune malattia), ma di essere accompagnati in una terapia che, per quanto possibile, valorizzi al massimo le capacità di ciascuno, insieme alle sue possibilità di relazionarsi con gli altri.
«Ancor più negli ultimi anni – sottolinea don Barbante – ci siamo concentrati nell’accogliere chi si rivolge a noi in modo che sia il primo protagonista del percorso di cura, riconoscendo ciascuno come una persona ricca, capace e portatrice di una serie di potenzialità che meritano di essere accompagnate e fatte evolvere». È un percorso allo stesso tempo di abilitazione e di integrazione sociale, una dinamica di relazione a cui concorrono tanto gli ospiti quanto i dipendenti dell’istituto, insieme ai familiari e ai volontari.
Un lavoro di relazione che avviene anche con le famiglie dei disabili perché, riconosce il presidente, «la scelta di ricoverare in un istituto un proprio caro, un figlio con disabilità o un anziano non autosufficiente, è un passo importante, che può generare sofferenza: per questo la nostra attenzione è garantire una continuità di rapporti tra chi è dentro e chi è fuori, accompagnando le famiglie a vivere situazioni certamente non facili».