Il Cardinale, al termine del Pontificale dell’Epifania in Duomo, ha invitato a pranzo una famiglia di profughi, i genitori e sette figli, ora accolta a Cinisello Balsamo in una parrocchia. Un incontro semplice per un gesto pieno di significato

di Annamaria BRACCINI

pranzo scola famiglia musulmana 2016

Arrivano – le più piccole un poco intimidite – portando doni e cibi del loro Paese, come si fa quando ci si ritrova, nella gioia di un giorno di festa, per condividere la tavola. Così, con semplicità, come si fa, appunto tra amici e parenti, con la famiglia al completo.

È questo il clima bello e “caldo” che si respira nelle tradizionalmente austere stanze che portano all’appartamento del Cardinale. Che, appena concluso di presiedere il Pontificale dell’Epifania in Cattedrale, accoglie, per il pranzo in casa sua, una famiglia musulmana di origine palestinese, ma irachena.

In tutto nove persone, i genitori e sette figli di età compresa tra i venticinque e i quattro anni, che dopo aver vissuto una vera e propria odissea tra tanti Paesi e campi profughi come Erbil, sono stati finalmente accolti, prima, per otto mesi in Casa Suraya gestita da Caritas Ambrosiana, e, adesso, a Cinisello Balsamo, dove il parroco di “Sant’Ambrogio”, don Alberto Capra, ha messo a loro disposizione dei locali per vivere dignitosamente. E, così c’è anche lui, che, con Emanuela e Francesco Meroni – i coniugi Tutor – accompagnano la famiglia Hamdawi.

Tra sorrisi, strette di mano, qualche parola in italiano dei figli maggiori, un po’ di inglese, nemmeno i severi ritratti degli Arcivescovi di Milano del passato, sotto il cui sguardo ci si saluta prima di andare in sala da pranzo, riescono a far sembrare formale l’invito. Gli ospiti hanno portato cibi dolci e salati, tipici della tradizione palestinese e donano un quadro disegnato dai ragazzi che rappresenta la Moschea di Al Aqsa e i Libri delle grandi Religioni, circondata dalle bandiere palestinese e italiana. L’Arcivescovo ricambia con una stampa del Duomo alla quale ha posto, in calce, il suo augurio a mano «in segno di amicizia».  

Intorno alla tavola, sono in diciannove – ci sono anche i segretari del Cardinale e la “famiglia” arcivescovile – e mentre arrivano i primi piatti, ravioli vegetariani, confezionati dai detenuti del laboratorio di pastificio del carcere di Monza, si parla e si scherza. Il menù è leggero: come detto, la pasta fresca che hanno voluto donare i reclusi, avendo saputo di questo pranzo durante la visita natalizia di Scola del 23 dicembre; poi,  rollé di tacchino con formaggi e patate e panettone pasticciato. Nessuna bevanda alcolica, rispettando quanto prescrive l’Islam.

«Al di là di tutte le diversità di cultura, etnia e religione, siamo un’unica famiglia umana e questo per un cristiano come pure per un musulmano che creda in Dio, è un dato di fatto molto importante ma, purtroppo, anche per la radice del male che sta in noi,  largamente dimenticato oggi», dice, spiegando il significato del suo gesto, il Cardinale che, a tavola, ha accanto a sé il più grande dei figli Hamdawi, che traduce per il proprio papà, e la più piccolina

«Spesso – continua – ci smarchiamo gli uni dagli altri e, per affermare il giusto valore di una nazione o di un popolo, perdiamo il senso dell’appartenenza a questa unica famiglia. Invece, c’è un’esperienza, al di là delle tradizioni, che ci accomuna come uomini. Per noi cristiani, proprio la festa dell’Epifania, indica come Dio è venuto perché noi potessimo essere figli nel Figlio dell’unico Padre. Credo che l’ospitalità che, non a caso, è sempre stata praticata dall’umanità, sia fondamentale. Questo non vuol dire nascondersi i problemi perché è chiaro che il meticciamento di popoli, in atto in tutto il pianeta, è un fenomeno che ci farà penare ancora per decenni. Occorre guardare in faccia la realtà, con molto realismo, evitando gli estremismi inutili. Io ho voluto fare questo piccolo gesto perché, come ci ripete il Santo Padre, senza ospitalità il nostro essere uomini si impoverisce».

Un segno «piccolo», come lo definisce Scola, ma tanto più importante oggi, in un momento in cui infuriano le polemiche sull’accoglienza, anche a livello comunale. «È evidente – commenta l’Arcivescovo – che una situazione che sta diventando strutturale, come quella dell’immigrazione che non è più pura emergenza, generi conflitti. Bisogna viverla “dall’interno”, trovando la strada per dialogare e capire chi deve rinunciare a cosa in qualche occasione. È giusto dare a chi è italiano come a chi viene da fuori, ma ci si deve mettere attorno a un tavolo per decidere insieme, trovando una via di uscita adeguata per risolvere l’uno e l’altro dei problemi».

Forse quella che manca – e il Cardinale lo sottolinea dopo averlo evidenziato nell’omelia del Pontificale – è, allora, davvero una vera educazione civica. Basta guardare gli occhi di questi giovani e bambini profughi, pensare che cosa hanno già visto e ripetersi semplicemente quello che dice uno dei ragazzi palestinesi, «sono felice di vedere gente buona».

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