Tra i tesori lasciati in eredità dai Padri, anche il rito liturgico chiamato per l’appunto “ambrosiano”: una particolare modalità con la quale la Chiesa di Milano celebra e rivive il mistero di salvezza. Molte particolarità risalgono proprio ad Ambrogio e ancor oggi, dopo milleseicento anni, si sono fedelmente conservate
di Marco NAVONI
Dottore della Biblioteca Ambrosiana
Papa Gregorio Magno in una lettera al clero di Milano del settembre dell’anno 600, confermando l’elezione del nuovo Vescovo appena avvenuta, lo definiva significativamente non tanto come successore, bensì come vicario di sant’Ambrogio. Veniva così in un certo senso rimarcata, proprio dall’autorità del pontefice romano, quella connessione strettissima tra la Chiesa di Milano e il suo patrono, quasi che fosse sempre lui, Ambrogio, a reggere il governo pastorale del suo popolo attraverso dei Vescovi che gli sarebbero succeduti lungo i secoli.
E sarà ancora un altro Papa, Giovanni VIII, in una lettera dell’881, a definire per la prima volta ” ambrosiana” la Chiesa di Milano, mettendo così le premesse per quel processo di pratica identificazione (cosa forse più unica che rara nella storia civile ed ecclesiastica) tra l’aggettivo che deriva dal nome della città (milanese) e quello che deriva dal nome del patrono (ambrosiano, appunto).
Segno che la storia della città e della Chiesa di Milano era percepita come profondamente segnata dall’opera di Ambrogio e dalla sua presenza nei Vescovi suoi successori.
In effetti l’episcopato di Ambrogio (374-397) si può giustamente ritenere fondativo rispetto alla successiva storia della Chiesa milanese; ma è per altro significativo che Ambrogio stesso, considerando quasi una parentesi i lunghi anni in cui la cattedra milanese fu occupata, o meglio usurpata, dall’eretico ariano Aussenzio suo immediato predecessore, volle riagganciare esplicitamente la propria opera pastorale a quella dell’ultimo vero Vescovo cattolico che lo aveva preceduto, quel santo vescovo Dionigi, perseguitato per la sua fede incrollabile nella divinità di Cristo, coraggioso difensore della retta dottrina, zelante pastore del suo gregge, “quasi martire” proprio perché morto esule in Armenia a causa dell’intolleranza imperiale filoariana, e che ora potremmo chiamare “primo” di questo nome dopo la nomina dell’ultimo dei successori – o, come direbbe Gregorio Magno, dei vicari – di Ambrogio.
Da Dionigi e dagli altri santi Vescovi a lui precedenti Ambrogio raccolse quella che lui stesso definisce una preziosa “eredità”, la Chiesa milanese; a sua volta egli portò a maturazione questa eredità, conferendole un’anima, un’impronta, una qualità che di lì in avanti l’avrebbe per sempre contraddistinta: l’ambrosianità. Essa potrebbe essere così delineata per sommi capi proprio a partire dall’opera pastorale di Ambrogio: l’edificazione del popolo di Dio attraverso la predicazione della Parola coniugata alla solida dottrina della Chiesa; l’assidua celebrazione dei sacramenti come occasione in cui incontrare (o meglio, “abbracciare”) Cristo vivo e presente nella celebrazione liturgica; l’attenzione sempre attualissima ai problemi della giustizia sociale che si fa carità e condivisione; l’accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani a quei tempi considerati barbari senza venir meno al dovere di una evangelizzazione nel contempo discreta e chiara; la cura personale da parte del Vescovo nella formazione del clero come condizione previa di ogni azione pastorale; la difesa coraggiosa e tenace della libertà della Chiesa e della sue prerogative contro le ingerenze di un potere statale autocratico e tendenzialmente assolutista; la chiara e per nulla affatto accomodante denuncia degli errori che inquinano la vita civile, chiunque li avesse commessi, fosse pure lo stesso imperatore. Sono queste le linee pastorali che a partire da Ambrogio attraversano, lungo i secoli, l’intera storia della Chiesa milanese e trovano nell’opera di numerosi santi Vescovi applicazioni sempre nuove e geniali.
(Da «L’Osservatore Romano», 29 settembre 2002)