Viaggio nella parrocchia di San Giorgio alle Ferriere, nell'ex area Falck teatro nei giorni scorsi della tragica morte di un ragazzo rom. Il parroco don Marco Recalcati: «Abbiamo il dovere di aprire gli occhi su realtà che sono a due passi da noi»


Redazione

26/09/2008

di Stefania CECCHETTI

Il nome – San Giorgio alle Ferriere – la dice già lunga: questa è la “parrocchia della Falck”, voluta e costruita dall’omonima famiglia insieme al villaggio per gli operai dell’ex acciaieria di Sesto San Giovanni. Ora la fabbrica non c’è più. Al suo posto sorgerà un mega-centro residenziale che ripopolerà il quartiere e ne cambierà profondamente il volto.

Per adesso, nell’epoca della lunga transizione, la parrocchia ha due anime e un prete che tenta di tenerle insieme: don Marco Recalcati, uno di quei sacerdoti di frontiera di cui per fortuna è ricca la Diocesi ambrosiana e che in questi giorni è stato più volte interpellato dai media sulla vicenda del quattordicenne rom morto in un incendio nell’area dismessa. Il quarto decesso in cinque anni, da quando è parroco don Marco.

Sul fatto don Recalcati ha parole dure: «In questi giorni il Comune mi ha chiamato non so quante volte per la vicenda di Marian, per i dettagli del funerale e cose del genere. Nella quotidianità, però, c’è poca disponibilità da parte delle istituzioni. D’altra parte, interessarsi ai rom è una scelta che politicamente viene punita dall’elettorato. E dire che ci troviamo a Sesto, una città storicamente aperta alla solidarietà».

Un popolo, quello dei rom del area ex Falck, che fino a tre anni fa, il periodo del boom del fenomeno, si aggirava intorno alle 400-500 persone. Ovvio che il disagio dei residenti sia notevole. Per questo don Marco ha scelto di essere prima di tutto il parroco della sua gente: «Non voglio essere il prete dei rom – dice don Marco -. Ma questo no vuol dire che si possa dimenticare la sofferenza di queste persone. La parrocchia ha il dovere di aprire gli occhi su queste realtà – dice don Marco -, che non sono a Calcutta, ma a due passi da noi».

Il percorso dell’integrazione è necessario, ma accidentato: «E’ facile trovare consensi nelle nostre comunità cristiane finché si parla di processioni e feste dell’oratorio. Su questioni così scomode e di confine un po’ meno». Anche se il territorio, in qualche modo, ha risposto, per esempio sostenendo il camper sanitario che portava all’interno un piccolo ambulatorio di volontari. «Poco rispetto alle esigenze, ma abbastanza per essere presenti, cogliere qualche opportunità e far nascere qualche occasione», come le partite di calcio organizzate tra i giovani della parrocchia e i ragazzi rom.

Anche a prescindere dai nomadi, quello della parrocchia non è un territorio facile: «La mia è una sfida affascinante – spiega ancora don Marco -. Da una parte bisogna custodire l’esistente, un realtà numericamente ridotta a soli 2200 abitanti, composta prevalentemente da anziani, gli ex operai in pensione. Un ambito molto delicato, fatto di bisogni e di grandi solitudini, nonostante nel quartiere tutti conoscano tutti e si viva ancora secondo ritmi da paese. Pensi che siamo riusciti perfino a fare un presepe vivente con gli animali. Una cosa quanto meno insolita per una realtà come Sesto San Giovanni».

D’altra parte c’è il progetto di riqualificazione, per ora solo ipotetico, che guarda al futuro e che chiama in causa la parrocchia: «Bisognerà arrivare a definire uno spazio per l’oratorio, attualmente ubicato in una sede precaria nel seminterrato del santuario Madonna di Lourdes, annesso alla parrocchia. Finché si parla, come oggi, di una decina di ragazzi all’anno, è un conto. Ma con le nuove abitazioni le cose cambieranno. Non si tratta di cercare solo uno spazio fisico, ma anche un nuovo modo di essere oratorio».

Allora, buon cammino. La strada dell’integrazione percorre territori diversi, sfida gli anni che passano e chiama continuamente a mettersi in gioco, come cristiani e come persone.

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