Nuove regole:�Stati Uniti�in volo, Unione Europea a terra
di Nico CURCI
Redazione
La scorsa settimana il presidente Usa Obama è riuscito a far diventare legge il suo progetto di riforma della regolamentazione dei mercati, volto a rendere più stringenti i controlli delle autorità di vigilanza sugli intermediari finanziari. La stampa di casa nostra ha inneggiato al presidente, che è riuscito a mantenere un’altra promessa elettorale dopo quella dell’estensione della copertura sanitaria ai poveri, cavallo di battaglia con cui Obama aveva vinto le elezioni. Alcuni commentatori sono anche giunti a paragonare la concretezza del Governo americano con l’inconcludenza delle tante discussioni europee, che non riescono ancora a delineare il quadro della regolamentazione comunitaria.
In effetti, la riforma di Obama segna un punto di svolta non di poco conto rispetto alla tradizione americana dell’ultimo ventennio, quando si era affermata l’idea che il light touch (“tocco lieve”) nella regolamentazione fosse più che sufficiente a garantire la stabilità dei mercati, che per loro natura tenderebbero ad auto-regolarsi, sviluppando al contempo innovazione e strumenti di crescita. Quando la crisi è deflagrata in tutta la sua potenza, questa fiducia cieca e irrazionale nelle capacità del mercato è venuta meno e da più parti si è invocata una presa di coscienza sulla necessità di evitare situazioni come quelle che hanno causato il disastro. Contemporaneamente, le autorità di vigilanza anglosassoni hanno iniziato a guardare con interesse all’operatività di quei sistemi (come il nostro) che hanno mostrato una robustezza ben maggiore nella tempesta finanziaria.
In questo quadro di fondo si è inserita la riforma di Obama, con i limiti alle attività d’investimento rischiose per gli intermediari che prendono fondi sul mercato fruendo della garanzia pubblica, lo stop allo scambio di derivati fuori dai mercati regolamentati che avevano accelerato la diffusione della crisi, il tentativo di frenare la crescita dimensionale delle istituzioni finanziarie che, diventando too big to fail (“troppo grandi per fallire”), finiscono col “catturare” le autorità di vigilanza che non possono fare altro che salvarle, alimentando così il loro “azzardo morale” nell’assunzione di sempre maggiori rischi.
Certo, anche in questo disegno di oggettivo avanzamento verso una regolamentazione più efficace, non mancano i punti di ombra. Rimane infatti la sensazione che la scelta, fortemente voluta dal Congresso, di mantenere immutata la molteplicità dei regolatori attuali, invece di accentrare il potere di vigilanza in un unico ente, risponda più al bisogno dei membri del Congresso di mantenere un potere decisivo su queste autorità che all’obiettivo di migliorare il sistema. Così come non si può tacere il disappunto per il mancato intervento sulla situazione di oligopolio che permette alle tre grandi agenzie di rating internazionale di continuare ad alimentarsi grazie a un evidente conflitto di interesse tra la loro funzione e i compensi che percepiscono da quelle stesse istituzioni di cui analizzano i bilanci. Infine, prima di valutare definitivamente gli effetti della riforma, bisogna aspettare i dettagli regolamentari che, in nessun altro campo come in questo, sono decisivi. E c’è da scommettere che la potente lobby delle istituzioni finanziarie saprà difendersi con tutte le sue forze contro possibili decisioni ad essa non favorevoli.
Ma colpisce effettivamente l’incapacità dell’Europa di fornire un tentativo di risposta almeno paragonabile a quello di Obama. Troppi interessi nazionali impediscono il raggiungimento di un compromesso alto. Così si rischia di perdere una sfida decisiva per il futuro. Ci auguriamo che i leader europei sappiano riprendere il bandolo della matassa. Altrimenti non basteranno annunci roboanti sulla solidarietà europea verso i Paesi in difficoltà, né gli impegni a ridurre gli insostenibili squilibri di finanza pubblica.
Nessun Paese europeo può affrontare il futuro da solo. E tutte le volte che i leader dimostrano di guardare più agli interessi interni che a quelli europei, i mercati scommettono contro l’euro e quindi contro l’Europa. Non è detto che prima o poi una scommessa di questo tipo non si dimostri vincente. E allora saranno dolori. Per tutti. La scorsa settimana il presidente Usa Obama è riuscito a far diventare legge il suo progetto di riforma della regolamentazione dei mercati, volto a rendere più stringenti i controlli delle autorità di vigilanza sugli intermediari finanziari. La stampa di casa nostra ha inneggiato al presidente, che è riuscito a mantenere un’altra promessa elettorale dopo quella dell’estensione della copertura sanitaria ai poveri, cavallo di battaglia con cui Obama aveva vinto le elezioni. Alcuni commentatori sono anche giunti a paragonare la concretezza del Governo americano con l’inconcludenza delle tante discussioni europee, che non riescono ancora a delineare il quadro della regolamentazione comunitaria.In effetti, la riforma di Obama segna un punto di svolta non di poco conto rispetto alla tradizione americana dell’ultimo ventennio, quando si era affermata l’idea che il light touch (“tocco lieve”) nella regolamentazione fosse più che sufficiente a garantire la stabilità dei mercati, che per loro natura tenderebbero ad auto-regolarsi, sviluppando al contempo innovazione e strumenti di crescita. Quando la crisi è deflagrata in tutta la sua potenza, questa fiducia cieca e irrazionale nelle capacità del mercato è venuta meno e da più parti si è invocata una presa di coscienza sulla necessità di evitare situazioni come quelle che hanno causato il disastro. Contemporaneamente, le autorità di vigilanza anglosassoni hanno iniziato a guardare con interesse all’operatività di quei sistemi (come il nostro) che hanno mostrato una robustezza ben maggiore nella tempesta finanziaria.In questo quadro di fondo si è inserita la riforma di Obama, con i limiti alle attività d’investimento rischiose per gli intermediari che prendono fondi sul mercato fruendo della garanzia pubblica, lo stop allo scambio di derivati fuori dai mercati regolamentati che avevano accelerato la diffusione della crisi, il tentativo di frenare la crescita dimensionale delle istituzioni finanziarie che, diventando too big to fail (“troppo grandi per fallire”), finiscono col “catturare” le autorità di vigilanza che non possono fare altro che salvarle, alimentando così il loro “azzardo morale” nell’assunzione di sempre maggiori rischi.Certo, anche in questo disegno di oggettivo avanzamento verso una regolamentazione più efficace, non mancano i punti di ombra. Rimane infatti la sensazione che la scelta, fortemente voluta dal Congresso, di mantenere immutata la molteplicità dei regolatori attuali, invece di accentrare il potere di vigilanza in un unico ente, risponda più al bisogno dei membri del Congresso di mantenere un potere decisivo su queste autorità che all’obiettivo di migliorare il sistema. Così come non si può tacere il disappunto per il mancato intervento sulla situazione di oligopolio che permette alle tre grandi agenzie di rating internazionale di continuare ad alimentarsi grazie a un evidente conflitto di interesse tra la loro funzione e i compensi che percepiscono da quelle stesse istituzioni di cui analizzano i bilanci. Infine, prima di valutare definitivamente gli effetti della riforma, bisogna aspettare i dettagli regolamentari che, in nessun altro campo come in questo, sono decisivi. E c’è da scommettere che la potente lobby delle istituzioni finanziarie saprà difendersi con tutte le sue forze contro possibili decisioni ad essa non favorevoli.Ma colpisce effettivamente l’incapacità dell’Europa di fornire un tentativo di risposta almeno paragonabile a quello di Obama. Troppi interessi nazionali impediscono il raggiungimento di un compromesso alto. Così si rischia di perdere una sfida decisiva per il futuro. Ci auguriamo che i leader europei sappiano riprendere il bandolo della matassa. Altrimenti non basteranno annunci roboanti sulla solidarietà europea verso i Paesi in difficoltà, né gli impegni a ridurre gli insostenibili squilibri di finanza pubblica.Nessun Paese europeo può affrontare il futuro da solo. E tutte le volte che i leader dimostrano di guardare più agli interessi interni che a quelli europei, i mercati scommettono contro l’euro e quindi contro l’Europa. Non è detto che prima o poi una scommessa di questo tipo non si dimostri vincente. E allora saranno dolori. Per tutti.