Le preoccupazioni non mancano, ma il pensiero è ai giovani

di Franco TASSONE
Redazione

Inizia un nuovo anno scolastico e tra i plotoni di esecuzione di chi vorrebbe eliminare le contraddizioni della riforma, le rimostranze del mondo del precariato, la demotivazione degli insegnanti… ritorno alla scuola da professore di religione. Siccome entro come “precario” solidale ai tanti che ogni anno aspettano in quale istituto potranno vivere del loro lavoro intellettuale, mi abituerò a entrare in classe e riannodare le passioni tristi di tanti giovani alla speranza che qualcuno voglia ascoltare ancora un’esperienza di vita e di cultura.
I giovani si annoiano a scuola quando essa diventa un meccanismo; ne sono invece affascinati quando trovano ogni mattina in classe un docente che comunichi la sua umanità, la sua cultura, la sua ipotesi e muove la loro libertà a cercare la risposta ai loro perché. Ciò che tu sai, nel momento in cui lo trasmetti ad altri, lo veicoli tramite il tuo “io”: proprio per questo è impossibile dare una vera e propria oggettività a una lezione in classe.
Se per strumento del mio lavoro intendessi i libri, e li facessi “parlare” al mio posto (come molto spesso accade anche all’insegnante più accorto, vuoi per stanchezza, vuoi per sua comodità e convenienza), allora la lezione diventa tecnicismo, un do ut des («ti faccio leggere il libro con me, poi tu me lo ripeti»), un procedimento meccanico in cui manca la libertà dell’umano, perché il mio “io” non entra in gioco di fronte alla classe. La lezione, invece, dovrebbe non essere meccanica o tecnica (fattori che spengono l’interesse e l’entusiasmo del discente), ma una traditio – una consegna da un’umanità (il docente) a un’altra (la classe) -, non solo di un apprendimento, ma anche della modalità umana con cui si è giunti a tale apprendimento.
Ciò che l’insegnante veicola maggiormente con la sua persona è l’approccio alla materia dell’apprendimento, come io mi pongo di fronte a essa e come agisco: in una parola il metodo. Non esistono formule, più o meno “magiche”: per insegnare-imparare a studiare non c’è un aggettivo valido per tutti, perché il metodo è personale. Tanto più importante diventa allora la modalità con cui l’insegnante trasmette il proprio metodo, guidando ciascuno nella classe alla ricerca del proprio, instaurando un confronto aperto, nel vivo del lavoro, sul “come fare a…”. È solo tramite un’interazione personale che avviene la trasmissione di tutti i fattori determinanti per l’apprendimento.
Quindi fare l’insegnante vuol dire essere continuamente chiamato e ri-chiamato a esprimere se stesso, la propria libertà, il proprio sapere e metodo; a essere attento e vigile sulla realtà di chi sta di fronte, perché se la mia umanità non tiene conto dell’altra che ho di fronte, la traditio (cioè la consegna tramite interazione) non è possibile. Solo l’umano veicola il sapere. Dice Hannah Arendt: «L’insegnamento è una tradizione che tu comunichi in modo sempre diverso».
Mi accingo a entrare in classe, sento tutta l’emozione e l’urgenza educativa, sento già le coppie di 26 occhi che mi squadreranno e mi interrogheranno in ogni classe, sui miei tic e le mie movenze (quanti prof ho imitato nella mia vita…) e poi, appena comincerò a fare l’appello e li chiamerò per nome, mi verrà spontaneo non pensare più ai problemi della riforma e le parole d’ordine della scuola, per immergermi nel vissuto e trasmettere una speranza di vita e di curiosità che, a quasi 50 anni, mi resta ancora dentro come il primo giorno di scuola, grazie ai miei migliori insegnanti.

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