Monsignor Luigi Stucchi, Vicario episcopale di Varese, interviene sulle parole derisorie che i ticinesi hanno recentemente riversato sui frontalieri italiani

di Maria Teresa ANTOGNAZZA
Redazione

Parole molto pesanti quelle risuonate nelle settimane scorse attraverso la Rete e apparse su cartelloni pubblicitari appena al di là del confine elvetico: prendevano di mira i lavoratori italiani frontalieri, quella schiera di varesotti, comaschi, milanesi, che ogni giorno varcano il confine per fare il proprio lavoro. Una tradizione lunghissima per queste terre di confine, sempre toccate dai conflitti, più o meno aspri, che di epoca in epoca hanno caratterizzato la ricerca di un equilibrio fra diritti e doveri degli “stranieri” del Canton Ticino.
E ora, proprio contro di loro è stata lanciata una campagna diffamatoria, con tanto di vignette satiriche, tesa ad accusarli di “rubare” il lavoro ai ticinesi. «No all’invasione del frontalierato», titola un sito internet che sta facendo proseliti sui social network, con i lavoratori italiani descritti come grassi topi alle prese con una gustosa forma di formaggio svizzero, da cui, appunto, rubano preziosi bocconi. Sono «il Fabrizio, piastrellista di Verbania», «Bogdan, il rumeno» dalla professione indefinita, «Giulio, avvocato lombardo», con chiari riferimenti al ministro dell’Economia, preso di mira per il suo “scudo fiscale”.
In molti, in Ticino come in Italia, hanno parlato di attacco indegno: Unia, il più grande sindacato svizzero ha additato la campagna come operazione di «chiaro stampo neonazista», accusando «l’indifferenza con la quale è stato accolto questo ennesimo rigurgito razzista». E oggi, anche la Chiesa locale varesina ha deciso di far sentire la propria voce, forte e chiara, di condanna di questo episodio e della logica che lo ispira. Lo fa attraverso le parole del Vicario episcopale di zona, monsignor Luigi Stucchi: «Parlare di lavoro significa toccare uno degli aspetti fondamentali legati alla dignità della persona, di ogni persona, da qualunque territorio arrivi e a qualunque popolo appartenga. Quelli espressi da questa campagna sono giudizi che nessuno può pensare di poter esprimere, né tantomeno può accettare di ricevere. E ciò vale indubbiamente per gli italiani che passano il confine svizzero per recarsi a lavorare in Canton Ticino, così come per tutte le persone che varcano altri confini per venire a lavorare in Italia».
Fa specie soprattutto, secondo il vescovo Stucchi, che questo tipo di messaggio provenga da una terra di confine: «Questa, per sua natura – spiega – è una terra non di contrapposizione, ma di dialogo, di incontro, senza nulla togliere ad altri territori: certamente, in certi momenti, il confronto può essere anche serrato, per mettere in chiaro i diritti e i doveri fondamentali di popoli che vivono tra loro vicini, nella concretezza di accordi e regolamenti, ma sempre preservando le buone relazioni reciproche».
Ora, invece, sono risuonate valutazioni, aggiunge Stucchi, «che fanno male certamente a chi le riceve ma che danneggiano anche chi le esprime. Nessuno può pensare che il lavoro sia una merce di scambio, una realtà materiale che qualcuno può accaparrarsi; esso è tra le espressioni fondamentali della persona umana, una componente essenziale della vita, da valutare e considerare sempre con grande rispetto e dignità. Si lavora, qui come altrove, in ogni luogo, anche se diverso dalla propria terra di origine, per mantenere la propria famiglia, per rispondere al proprio compito umano. Quindi dobbiamo parlare del lavoro in ben altri termini, non certo con giudizi che non esito ad avvertire come xenofobi e razzisti. E chiunque esprima questi giudizi, in qualunque contesto e verso qualunque categoria di lavoratori, troverà ferma la nostra voce di condanna». Parole molto pesanti quelle risuonate nelle settimane scorse attraverso la Rete e apparse su cartelloni pubblicitari appena al di là del confine elvetico: prendevano di mira i lavoratori italiani frontalieri, quella schiera di varesotti, comaschi, milanesi, che ogni giorno varcano il confine per fare il proprio lavoro. Una tradizione lunghissima per queste terre di confine, sempre toccate dai conflitti, più o meno aspri, che di epoca in epoca hanno caratterizzato la ricerca di un equilibrio fra diritti e doveri degli “stranieri” del Canton Ticino.E ora, proprio contro di loro è stata lanciata una campagna diffamatoria, con tanto di vignette satiriche, tesa ad accusarli di “rubare” il lavoro ai ticinesi. «No all’invasione del frontalierato», titola un sito internet che sta facendo proseliti sui social network, con i lavoratori italiani descritti come grassi topi alle prese con una gustosa forma di formaggio svizzero, da cui, appunto, rubano preziosi bocconi. Sono «il Fabrizio, piastrellista di Verbania», «Bogdan, il rumeno» dalla professione indefinita, «Giulio, avvocato lombardo», con chiari riferimenti al ministro dell’Economia, preso di mira per il suo “scudo fiscale”.In molti, in Ticino come in Italia, hanno parlato di attacco indegno: Unia, il più grande sindacato svizzero ha additato la campagna come operazione di «chiaro stampo neonazista», accusando «l’indifferenza con la quale è stato accolto questo ennesimo rigurgito razzista». E oggi, anche la Chiesa locale varesina ha deciso di far sentire la propria voce, forte e chiara, di condanna di questo episodio e della logica che lo ispira. Lo fa attraverso le parole del Vicario episcopale di zona, monsignor Luigi Stucchi: «Parlare di lavoro significa toccare uno degli aspetti fondamentali legati alla dignità della persona, di ogni persona, da qualunque territorio arrivi e a qualunque popolo appartenga. Quelli espressi da questa campagna sono giudizi che nessuno può pensare di poter esprimere, né tantomeno può accettare di ricevere. E ciò vale indubbiamente per gli italiani che passano il confine svizzero per recarsi a lavorare in Canton Ticino, così come per tutte le persone che varcano altri confini per venire a lavorare in Italia».Fa specie soprattutto, secondo il vescovo Stucchi, che questo tipo di messaggio provenga da una terra di confine: «Questa, per sua natura – spiega – è una terra non di contrapposizione, ma di dialogo, di incontro, senza nulla togliere ad altri territori: certamente, in certi momenti, il confronto può essere anche serrato, per mettere in chiaro i diritti e i doveri fondamentali di popoli che vivono tra loro vicini, nella concretezza di accordi e regolamenti, ma sempre preservando le buone relazioni reciproche».Ora, invece, sono risuonate valutazioni, aggiunge Stucchi, «che fanno male certamente a chi le riceve ma che danneggiano anche chi le esprime. Nessuno può pensare che il lavoro sia una merce di scambio, una realtà materiale che qualcuno può accaparrarsi; esso è tra le espressioni fondamentali della persona umana, una componente essenziale della vita, da valutare e considerare sempre con grande rispetto e dignità. Si lavora, qui come altrove, in ogni luogo, anche se diverso dalla propria terra di origine, per mantenere la propria famiglia, per rispondere al proprio compito umano. Quindi dobbiamo parlare del lavoro in ben altri termini, non certo con giudizi che non esito ad avvertire come xenofobi e razzisti. E chiunque esprima questi giudizi, in qualunque contesto e verso qualunque categoria di lavoratori, troverà ferma la nostra voce di condanna».

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