di Gianni BORSA
Redazione
Mentre l’Europa e il Fondo monetario internazionale cercano di salvare Atene dalla bancarotta, i cittadini ellenici fanno i conti con le pesanti misure adottate dal governo e le altre in arrivo, resesi necessarie per rimettere progressivamente in regola i conti pubblici e l’economia nazionale. E se Berlino, Parigi, Roma o Madrid preparano il salvagente per la Grecia, nel Paese mediterraneo le famiglie, le piccole imprese, i giovani si chiedono quale sarà il loro futuro e quanti sacrifici dovranno affrontare.
Comunque il dado è tratto: 110 miliardi in tre anni affluiranno nelle casse del governo Papandreou per pagare i debiti accumulati (non dal suo governo, in carica solo dal 2009), per portare il rapporto deficit/Pil a livelli accettabili e per avviare una serie di riforme in grado di ridisegnare il mercato del lavoro, le pensioni, il welfare, l’imposizione fiscale, il settore privato. Eurozona e Fmi hanno infatti accordato i prestiti richiesti da Atene, ma in cambio hanno ottenuto impegni precisi sul piano delle riforme interne. Parlare di “solidarietà” in questo caso appare demagogico: l’Europa interviene perché è necessario e doveroso al fine di salvaguardare la moneta unica, domanda interessi a un tasso piuttosto elevato (il 5%), pretende un piano “lacrime e sangue” dai greci per rimettere in carreggiata il Paese.
Ora però occorrerà sostenere lo stesso Papandreou affinché si trovino le modalità per coinvolgere tutti i cittadini, dunque l’opinione pubblica, in un ampio e ambizioso processo di ammodernamento nazionale, facendo comprendere come i sacrifici sono indilazionabili non solo per la situazione attuale, ma anche per lasciare un’economia più matura e un futuro meno incerto alle prossime generazioni. Allo stesso tempo si dovranno imporre solo le misure ritenute assolutamente irrinunciabili per evitare rivolte sociali, dolorose e controproducenti.
Non si deve nemmeno trascurare il fatto che il caso greco si inserisce in una situazione europea già abbastanza complessa. I paesi economicamente in affanno sono tanti (alcuni, come Portogallo, Irlanda e Spagna, più in difficoltà di altri); la disoccupazione è una piaga continentale; le sfide di lungo periodo non sono certo scomparse all’apparire della recessione (cambiamenti climatici, energia, questione demografica…). Per non parlare della speciale reattività respirata nel Regno Unito e in Germania, dove il clima elettorale ha infiammato ogni dibattito e ha reso ogni decisione dipendente più dai sondaggi che dalla lucidità politica.
Ne deriva, ancora una volta, un monito: la prosperità, la stabilità democratica, i diritti individuali e collettivi una volta acquisiti non si possono considerare “eterni”. Pace, sviluppo e democrazia richiedono ogni giorno vigilanza, impegno, abnegazione, condivisione. La Grecia – suo malgrado – ci insegna anche questo. Mentre l’Europa e il Fondo monetario internazionale cercano di salvare Atene dalla bancarotta, i cittadini ellenici fanno i conti con le pesanti misure adottate dal governo e le altre in arrivo, resesi necessarie per rimettere progressivamente in regola i conti pubblici e l’economia nazionale. E se Berlino, Parigi, Roma o Madrid preparano il salvagente per la Grecia, nel Paese mediterraneo le famiglie, le piccole imprese, i giovani si chiedono quale sarà il loro futuro e quanti sacrifici dovranno affrontare.Comunque il dado è tratto: 110 miliardi in tre anni affluiranno nelle casse del governo Papandreou per pagare i debiti accumulati (non dal suo governo, in carica solo dal 2009), per portare il rapporto deficit/Pil a livelli accettabili e per avviare una serie di riforme in grado di ridisegnare il mercato del lavoro, le pensioni, il welfare, l’imposizione fiscale, il settore privato. Eurozona e Fmi hanno infatti accordato i prestiti richiesti da Atene, ma in cambio hanno ottenuto impegni precisi sul piano delle riforme interne. Parlare di “solidarietà” in questo caso appare demagogico: l’Europa interviene perché è necessario e doveroso al fine di salvaguardare la moneta unica, domanda interessi a un tasso piuttosto elevato (il 5%), pretende un piano “lacrime e sangue” dai greci per rimettere in carreggiata il Paese.Ora però occorrerà sostenere lo stesso Papandreou affinché si trovino le modalità per coinvolgere tutti i cittadini, dunque l’opinione pubblica, in un ampio e ambizioso processo di ammodernamento nazionale, facendo comprendere come i sacrifici sono indilazionabili non solo per la situazione attuale, ma anche per lasciare un’economia più matura e un futuro meno incerto alle prossime generazioni. Allo stesso tempo si dovranno imporre solo le misure ritenute assolutamente irrinunciabili per evitare rivolte sociali, dolorose e controproducenti.Non si deve nemmeno trascurare il fatto che il caso greco si inserisce in una situazione europea già abbastanza complessa. I paesi economicamente in affanno sono tanti (alcuni, come Portogallo, Irlanda e Spagna, più in difficoltà di altri); la disoccupazione è una piaga continentale; le sfide di lungo periodo non sono certo scomparse all’apparire della recessione (cambiamenti climatici, energia, questione demografica…). Per non parlare della speciale reattività respirata nel Regno Unito e in Germania, dove il clima elettorale ha infiammato ogni dibattito e ha reso ogni decisione dipendente più dai sondaggi che dalla lucidità politica.Ne deriva, ancora una volta, un monito: la prosperità, la stabilità democratica, i diritti individuali e collettivi una volta acquisiti non si possono considerare “eterni”. Pace, sviluppo e democrazia richiedono ogni giorno vigilanza, impegno, abnegazione, condivisione. La Grecia – suo malgrado – ci insegna anche questo.