Nonostante gli sforzi per uscire dalla crisi

di Gianni BORSA
Redazione

L’Europa comunitaria è ancora nel guado della recessione. Qualche decimale in più nella misurazione del Pil non può certo rasserenare gli animi, né restituire alle imprese i guadagni andati in fumo e tantomeno ridare il posto a chi ha perso il lavoro. Mentre gli Stati e l’Ue cercano di correre ai ripari (occorre onestamente riconoscere che proprio i Ventisette hanno mostrato una qualche capacità di reazione alla crisi), la crescita resta pressoché al palo, innestando una serie di problemi a carattere sociale e politico strettamente connessi con la situazione economica e finanziaria.
Di recente l’autorevole quotidiano britannico The Independent ha osservato che «un fermento sociale e industriale sta montando in tutta Europa: i lavoratori si oppongono ai tentativi di governi e aziende di imporre politiche di rigore, diminuire i salari e sostenere alcuni Paesi sull’orlo della bancarotta». Si citano quindi le proteste e gli scioperi registrati in Spagna, Grecia, Germania, Italia. «L’economia industriale europea non è ancora uscita dalla crisi», aggiunge il giornale d’oltreManica.
Dal canto suo, e con toni talvolta eccessivi, The New York Times ha osservato che «aiutare i Paesi nei guai – come vorrebbe fare l’Ue – non cancellerà il principale punto debole dell’euro, cioè il fatto che le economie nazionali hanno una valuta comune senza avere un adeguato coordinamento fiscale e neanche un unico Ministero del Tesoro». L’osservazione più rimarcata è poi la seguente: «Al cuore della questione ci sono tutti gli elementi di una crisi politica, perché è in discussione un elemento centrale dell’Unione europea: il controllo costante dei singoli Stati sulle politiche economiche e fiscali».
In realtà i giornali anglosassoni non dicono niente di più di quanto abbiano già affermato tante voci fra gli economisti e i politici europei; in prima fila vanno posti, in questo senso, il presidente della Commissione Barroso e il bistrattato presidente del Consiglio Van Rompuy. Il summit dei Paesi Ue tenutosi l’11 febbraio e quello di fine marzo si collocano in tale contesto: ogni Stato mantenga la propria autonomia d’azione in campo economico e fiscale – è questo il succo dei discorsi ricorrenti -, ma diventa sempre più necessario sintonizzare le grandi scelte riguardanti, per esempio, la produzione industriale, la politica energetica, le regole per il mercato creditizio, la capacità di risposta alla concorrenza estera…
In definitiva, la crisi che minaccia l’Europa potrebbe contemporaneamente unire o quanto meno avvicinare i Paesi aderenti. I problemi sono gli stessi (si potrebbero citare ancora gli squilibri nei conti pubblici, la disoccupazione crescente, i consumi modesti), le cure, specialmente nel medio-lungo periodo, dovrebbero essere simili: maggior coordinamento delle politiche economiche e fiscali (anche per imbrigliare la sleale concorrenza interna), più investimenti per conoscenza, ricerca, formazione e tecnologia, politiche economiche univoche sulla scena internazionale. L’Europa comunitaria è ancora nel guado della recessione. Qualche decimale in più nella misurazione del Pil non può certo rasserenare gli animi, né restituire alle imprese i guadagni andati in fumo e tantomeno ridare il posto a chi ha perso il lavoro. Mentre gli Stati e l’Ue cercano di correre ai ripari (occorre onestamente riconoscere che proprio i Ventisette hanno mostrato una qualche capacità di reazione alla crisi), la crescita resta pressoché al palo, innestando una serie di problemi a carattere sociale e politico strettamente connessi con la situazione economica e finanziaria.Di recente l’autorevole quotidiano britannico The Independent ha osservato che «un fermento sociale e industriale sta montando in tutta Europa: i lavoratori si oppongono ai tentativi di governi e aziende di imporre politiche di rigore, diminuire i salari e sostenere alcuni Paesi sull’orlo della bancarotta». Si citano quindi le proteste e gli scioperi registrati in Spagna, Grecia, Germania, Italia. «L’economia industriale europea non è ancora uscita dalla crisi», aggiunge il giornale d’oltreManica.Dal canto suo, e con toni talvolta eccessivi, The New York Times ha osservato che «aiutare i Paesi nei guai – come vorrebbe fare l’Ue – non cancellerà il principale punto debole dell’euro, cioè il fatto che le economie nazionali hanno una valuta comune senza avere un adeguato coordinamento fiscale e neanche un unico Ministero del Tesoro». L’osservazione più rimarcata è poi la seguente: «Al cuore della questione ci sono tutti gli elementi di una crisi politica, perché è in discussione un elemento centrale dell’Unione europea: il controllo costante dei singoli Stati sulle politiche economiche e fiscali».In realtà i giornali anglosassoni non dicono niente di più di quanto abbiano già affermato tante voci fra gli economisti e i politici europei; in prima fila vanno posti, in questo senso, il presidente della Commissione Barroso e il bistrattato presidente del Consiglio Van Rompuy. Il summit dei Paesi Ue tenutosi l’11 febbraio e quello di fine marzo si collocano in tale contesto: ogni Stato mantenga la propria autonomia d’azione in campo economico e fiscale – è questo il succo dei discorsi ricorrenti -, ma diventa sempre più necessario sintonizzare le grandi scelte riguardanti, per esempio, la produzione industriale, la politica energetica, le regole per il mercato creditizio, la capacità di risposta alla concorrenza estera…In definitiva, la crisi che minaccia l’Europa potrebbe contemporaneamente unire o quanto meno avvicinare i Paesi aderenti. I problemi sono gli stessi (si potrebbero citare ancora gli squilibri nei conti pubblici, la disoccupazione crescente, i consumi modesti), le cure, specialmente nel medio-lungo periodo, dovrebbero essere simili: maggior coordinamento delle politiche economiche e fiscali (anche per imbrigliare la sleale concorrenza interna), più investimenti per conoscenza, ricerca, formazione e tecnologia, politiche economiche univoche sulla scena internazionale.

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