Il 28 maggio 1980 le Br uccidevano il cronista del Corriere della Sera. La figlia Benedetta, che all'epoca aveva 3 anni, così ha raccontato al mensile della Diocesi di Milano Il Segno le vicende e l'atmosfera degli anni Settanta

di Cristina BIANCHI
Redazione

walter tobagi con il figlio Luca

Benedetta Tobagi nasce a Milano nel 1977. In quei mesi la Rai dice addio al bianco e nero, le prime radio libere mandano in onda David Bowie che canta We can be heroes, just for one day. Ma in Italia sono troppi gli eroi loro malgrado, vittime degli anni di piombo. Mentre si riapre il processo ai capi storici delle Br, i terroristi spargono sangue a Genova e Torino, i vertici delle istituzioni sono scossi dallo scandalo Lockheed. A Milano il Corriere della Sera ha assunto da un anno un giornalista trentenne, con una lunga gavetta alle spalle. Ricercatore di storia all’Università, comincia a occuparsi di inchieste sul terrorismo. Si chiama Walter Tobagi.
Benedetta ha solo tre anni quando Tobagi, suo padre, viene ucciso il 28 maggio 1980, in via Salaino, a due passi da casa. È una mattina di pioggia. A sparargli è un commando di sei ragazzi della “Milano-bene”, guidato da Marco Barbone. Con quel gesto, vogliono accreditarsi presso le Br. «Purtroppo non ho conservato ricordi diretti di mio padre, solo quello della sua morte. Ho preso in prestito i ricordi degli altri», racconta oggi Benedetta. Il suo appartamento luminoso è pieno di saggi di storia, filosofia e cinema (un’altra delle sue passioni). Molti i volumi sugli anni Settanta.

Giornalista freelance, impegnata in politica, una delle sue occupazioni principali come operatrice culturale è girare per le scuole a raccontare gli anni Settanta. Che cosa la spinge?
La voglia di dare ai giovani strumenti per comprendere la storia, perché diventino cittadini maturi.

Con lei partecipano spesso altre vittime degli anni di piombo. È così importante fare memoria?
Queste testimonianze sono fonti storiche importanti, perché trasmettono ai ragazzi la realtà della violenza del terrorismo e delle stragi, al di là delle semplificazioni ideologiche. Le voci delle vittime suscitano emozioni, che però vanno sempre accompagnate da conoscenze documentate.

Lei era una bambina molto piccola il giorno in cui uccisero suo padre. Come ha ricostruito la sua figura?
Ho ascoltato, interrogato tutti coloro che lo conoscevano. E poi per fortuna lui ha lasciato una produzione sterminata di scritti, che ho letto e riletto.

Che cosa l’ha colpita di più?
Forse la testimonianza di quelle persone meno note che mi hanno cercato per parlarmi di lui: molti giovani di allora, giornalisti precari che mio padre, impegnato nel sindacato, incoraggiava a farsi strada. Ma anche i ragazzi dei movimenti studenteschi che era andato a intervistare, senza pregiudizi.

Oggi lei scrive, va in tv, parla ai talk-show. Ma ha raccontato di essere stata molto timida, un tempo…
È vero. Sono sempre stata una bimba silenziosa. Poi un’adolescente timidissima. Però ascoltavo tutti, registravo ogni parola dentro di me. Fino a 18 anni parlavo poco, leggevo moltissimo.

Come ha affrontato il suo dolore, che era anche un dolore “pubblico”?
Se sei piccola, essere “famosa” perché hai avuto una storia tragica è duro: non ti lasciano mai in pace con le tue ferite. Crescendo, pian piano le cose cambiano. Ho studiato a lungo proprio per capire bene la storia in cui ero stata gettata. E sono sempre stata fiera del cognome che porto. Fiera di mio padre non perché è morto, ma per come è vissuto.

Durante il processo, sua madre Stella disse che avrebbe fatto di tutto per far crescere lei e suo fratello Luca senza odio per nessuno. Ci è riuscita?
È possibile, ma quando la violenza ti colpisce nei primi anni, la rabbia è comunque una reazione. A me è servito mettermi alla ricerca di mio padre.

Lui era impegnato anche in parrocchia. Lei è credente?
No.

È vero che non le piace la parola “perdono”?
Credo che il perdono sia una scelta squisitamente personale, che attiene alla sfera intima e spirituale del singolo. Quello che non mi piace è l’abuso della parola “perdono” nei discorsi pubblici, in particolare quando si parla di terrorismo o di reati gravi. Il reato è una lacerazione sociale, non credo sia corretto affidarne ai singoli la ricomposizione. E poi, mi pare che domandare pubblicamente perdono alle vittime le carichi di un peso ulteriore oltre a quello del trauma subito… Si dovrebbe comunque rispettare il diritto del singolo a non perdonare.

Scrivendo il libro su suo padre, rileggendo i suoi diari, che cosa ha scoperto di nuovo su di lui?
Ho apprezzato ancora di più la sua intelligenza e la sua cultura, e soprattutto la grande passione civile. E poi ho imparato tanti dettagli su di lui come persona, sul suo carattere, le piccole cose che gli piacevano… Così ho ritrovato in qualche modo il padre che non ho potuto conoscere nella quotidianità.

A Milano lei si è battuta per costruire la Casa della Memoria: non sarà l’ennesimo museo ai nostri “eroi”?
No, anzi. Il progetto non prevede un museo, ma la creazione di un centro di raccolta e documentazione. Un luogo per promuovere iniziative culturali, rivolte soprattutto alle scuole, secondo lo spirito della legge sulla “Giornata della memoria” per le vittime del terrorismo e delle stragi. Mantenere aperto un canale per trasmettere la memoria ai giovani è il modo migliore per evitare il rischio-monumento.

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