L'attualità della lezione di De Gasperi
di Gianni BORSA
Redazione
Non passa giorno senza che, in qualche angolo del continente, si levi una voce critica e preoccupata sul futuro dell’integrazione europea. «Si sono perse le motivazioni ideali degli esordi», sostiene qualcuno. «Manca un vero spirito di solidarietà», fa eco qualcun altro. «L’Europa non conviene», tagliano corto gli euroscettici. Nelle prime due posizioni c’è del vero, la terza mostra invece una visione attardata della storia e del mondo.
Di sicuro si impone in questa fase una riflessione sui principi di fondo e sulle modalità mediante le quali costruire la “casa comune”. Gli interventi dei giorni scorsi di papa Benedetto XVI, pellegrino a Santiago di Compostela e Barcellona, hanno riproposto l’urgenza di un “esame di coscienza” collettivo, che prenda in seria considerazione anche la prospettiva credente dell’unità del continente.
Giusto sessant’anni fa Alcide De Gasperi, politico di valore, cattolico, fervente europeista, rifletteva sulle molteplici angolature dalle quali si può osservare, e poi edificare, la Comunità europea, che allora era in embrione. In quel 1950 – a pochi mesi di distanza dalla Dichiarazione Schuman (9 maggio) che ancora oggi è ritenuta la pietra miliare dell’integrazione politica del vecchio continente – De Gasperi affermava: «Noi e tutti gli europeisti sentiamo in forme diverse l’esigenza e il modo dell’unione. Ed è bene che vi sia questa diversità di opinione, di metodo, di programma strutturale poiché, attraverso la discussione e l’esame delle varie possibilità, potremo anzitutto affinare noi stessi e potremo con l’esperienza, fissare quanto vi è di essenziale per lo scopo comune. Ben vengano quindi le diverse concezioni dell’Europa unita».
Il presidente del Consiglio italiano aggiungeva: «Collaboriamo tutti insieme per risolvere le innegabili difficoltà e fissare le migliori formule», per realizzare la Comunità, «anche perché non si dica che quando già l’Europa sarà unita, gli europeisti non lo saranno ancora». Era, precisamente, il 4 novembre 1950: De Gasperi teneva a indicare nella pace il primo obiettivo dell’Europa integrata, e segnalava la necessità di coinvolgere l’opinione pubblica, i cittadini, e attraverso di questi i parlamenti nazionali, così da conferire solide basi democratiche alla costruzione comunitaria.
De Gasperi era, questo va riconosciuto, un “visionario” dell’Europa, ma al contempo non si fermava all’utopia. Da concreto uomo di governo sottolineava infatti, in quella stessa occasione, che «per unirsi, occorre […] che ciascuno faccia concessioni e rinunce». Qualche mese prima (4 luglio 1950) aveva peraltro specificato che la giustizia sociale doveva costituire un impegno costante della futura Comunità, la quale doveva inoltre poggiare su solide fondamenta democratiche (regole, istituzioni).
Da tempo De Gasperi – assieme ad altri statisti dell’epoca – aveva dunque colto l’urgenza di risposte comuni a problemi che oltrepassavano i confini degli Stati: il consolidamento della pace e delle democrazie post-belliche, il perseguimento del benessere materiale delle popolazioni, la sicurezza internazionale. In svariate occasioni insisteva anche nel definire il “profilo morale” dell’integrazione continentale. In quello stesso 1950 (14 aprile), anticipando la Dichiarazione dell’amico Schuman, aveva affermato. «Noi possiamo dare un contributo fondamentale all’unificazione dell’Europa. […] Noi possiamo pensare da europei; ma vogliamo inquadrare questo pensiero nel concetto universale del cristianesimo», perché «la nostra vocazione è universale, così come è universale la redenzione e la nostra speranza nella Provvidenza».
De Gasperi intravvedeva lucidamente le difficoltà che sarebbero emerse sulla strada dell’integrazione; ma la sua convinzione europeista, legata a una positiva visione cristiana della politica e della storia, gli contentiva di guardare oltre gli ostacoli del presente. E questo “guardare oltre” potrebbe rivelarsi, ancora oggi, lo stile e il metodo più efficaci verso l’unità europea.
Non passa giorno senza che, in qualche angolo del continente, si levi una voce critica e preoccupata sul futuro dell’integrazione europea. «Si sono perse le motivazioni ideali degli esordi», sostiene qualcuno. «Manca un vero spirito di solidarietà», fa eco qualcun altro. «L’Europa non conviene», tagliano corto gli euroscettici. Nelle prime due posizioni c’è del vero, la terza mostra invece una visione attardata della storia e del mondo.Di sicuro si impone in questa fase una riflessione sui principi di fondo e sulle modalità mediante le quali costruire la “casa comune”. Gli interventi dei giorni scorsi di papa Benedetto XVI, pellegrino a Santiago di Compostela e Barcellona, hanno riproposto l’urgenza di un “esame di coscienza” collettivo, che prenda in seria considerazione anche la prospettiva credente dell’unità del continente.Giusto sessant’anni fa Alcide De Gasperi, politico di valore, cattolico, fervente europeista, rifletteva sulle molteplici angolature dalle quali si può osservare, e poi edificare, la Comunità europea, che allora era in embrione. In quel 1950 – a pochi mesi di distanza dalla Dichiarazione Schuman (9 maggio) che ancora oggi è ritenuta la pietra miliare dell’integrazione politica del vecchio continente – De Gasperi affermava: «Noi e tutti gli europeisti sentiamo in forme diverse l’esigenza e il modo dell’unione. Ed è bene che vi sia questa diversità di opinione, di metodo, di programma strutturale poiché, attraverso la discussione e l’esame delle varie possibilità, potremo anzitutto affinare noi stessi e potremo con l’esperienza, fissare quanto vi è di essenziale per lo scopo comune. Ben vengano quindi le diverse concezioni dell’Europa unita».Il presidente del Consiglio italiano aggiungeva: «Collaboriamo tutti insieme per risolvere le innegabili difficoltà e fissare le migliori formule», per realizzare la Comunità, «anche perché non si dica che quando già l’Europa sarà unita, gli europeisti non lo saranno ancora». Era, precisamente, il 4 novembre 1950: De Gasperi teneva a indicare nella pace il primo obiettivo dell’Europa integrata, e segnalava la necessità di coinvolgere l’opinione pubblica, i cittadini, e attraverso di questi i parlamenti nazionali, così da conferire solide basi democratiche alla costruzione comunitaria.De Gasperi era, questo va riconosciuto, un “visionario” dell’Europa, ma al contempo non si fermava all’utopia. Da concreto uomo di governo sottolineava infatti, in quella stessa occasione, che «per unirsi, occorre […] che ciascuno faccia concessioni e rinunce». Qualche mese prima (4 luglio 1950) aveva peraltro specificato che la giustizia sociale doveva costituire un impegno costante della futura Comunità, la quale doveva inoltre poggiare su solide fondamenta democratiche (regole, istituzioni).Da tempo De Gasperi – assieme ad altri statisti dell’epoca – aveva dunque colto l’urgenza di risposte comuni a problemi che oltrepassavano i confini degli Stati: il consolidamento della pace e delle democrazie post-belliche, il perseguimento del benessere materiale delle popolazioni, la sicurezza internazionale. In svariate occasioni insisteva anche nel definire il “profilo morale” dell’integrazione continentale. In quello stesso 1950 (14 aprile), anticipando la Dichiarazione dell’amico Schuman, aveva affermato. «Noi possiamo dare un contributo fondamentale all’unificazione dell’Europa. […] Noi possiamo pensare da europei; ma vogliamo inquadrare questo pensiero nel concetto universale del cristianesimo», perché «la nostra vocazione è universale, così come è universale la redenzione e la nostra speranza nella Provvidenza».De Gasperi intravvedeva lucidamente le difficoltà che sarebbero emerse sulla strada dell’integrazione; ma la sua convinzione europeista, legata a una positiva visione cristiana della politica e della storia, gli contentiva di guardare oltre gli ostacoli del presente. E questo “guardare oltre” potrebbe rivelarsi, ancora oggi, lo stile e il metodo più efficaci verso l’unità europea.