Dopo l'indipendenza, tre considerazioni sulla situazione a livello locale e sui risvolti per l'Europa e per l'Italia
Redazione
21/02/2008
di Riccardo MORO
Migliaia e migliaia le bandiere rosse con l’aquila bicefala, simbolo degli albanesi in tutto il mondo, per la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, festeggiata domenica 17 febbraio a Pristina e in quasi tutto il Paese. Quasi tutto, perché nel Nord, a Mitrovica, oltre il fiume Ibar, dove abita la comunità serba, la giornata è stata vissuta come un incubo pieno di rancore.
Si guarda al Kosovo con un misto di speranza e timore. Non si può non essere coinvolti dall’entusiasmo dei manifestanti, ma le durissime reazioni della Serbia e della Russia alimentano le apprensioni. Le ragioni del contendere sono note. Il Kosovo è abitato per oltre il 90% da popolazioni di etnia (e lingua) albanese, che da sempre desiderano autonomia e indipendenza. Ma è nello stesso tempo terra che i serbi considerano parte integrante della Grande Serbia, quella in cui il sangue serbo venne versato nella funesta battaglia di Kosovo Polje persa contro gli ottomani nel 1389, considerata dalla ideologia nazionalista una delle principali tessere dell’identità serba.
Il principio di autodeterminazione è fondamentale nella convivenza democratica internazionale e nel caso kosovaro non v’è dubbio che il consenso intorno all’indipendenza sia sostanzialmente unanime per la parte di popolazione albanese, cioè per la quasi totalità della popolazione. Ma la maggioranza, per quanto grande, non basta se non vi è riconciliazione, la grande ritardataria dei Balcani, senza la quale è impossibile una pace duratura.
Guardando al futuro emergono tre considerazioni.
La prima riguarda la dimensione locale. In Europa abbiamo avuto in questi anni spinte per l’indipendenza di alcune regioni. Si sono sviluppate in un percorso efficace quando a guidarle sono stati uomini di pace, come nel caso della divisione della Cecoslovacchia accompagnata da Vaclav Havel. In Kosovo Ibrahim Rugova aveva promosso uno spirito nonviolento. Riuscirà il suo successore e amico Fatmir Sejdiu a mantenerlo? La convivenza col premier Thaci, tra i fondatori dell’Uck, la milizia kosovara che non credeva nel dialogo, può essere difficile. Da parte serba la recentissima rielezione del moderato Tadic alla Presidenza della Repubblica, senza l’appoggio degli ultranazionalisti, èpositiva, ma le sue prime dichiarazioni non sono state leggere.
La seconda riguarda l’Europa. Sia per il Kosovo, sia per la Serbia il futuro è nell’Unione Europea. Di fatto oggi l’Ue sta accompagnando il percorso kosovaro e una impegnativa missione è appena partita da Bruxelles, per assistere il neo-Stato nella produzione legislativa e nell’organizzazione istituzionale necessarie dopo l’indipendenza per far funzionare il Paese ed evitare l’intromissione delle mafie che hanno prosperato in questi anni tormentati.
Ma il ruolo dell’Unione Europea non riguarda solo la capacità di accompagnare il percorso, quanto l’autorevolezza per orientarlo, o meglio per evitarne degenerazioni. I Balcani sono sembrati troppo spesso il figlio bastardo dell’Europa, ribelle e scontroso, a cui la vecchia madre, o almeno alcuni dei parenti anziani, non riesce o non vuole più badare. Non può essere così.
Analoghe considerazioni valgono per le Nazioni Unite. Se l’Europa sta scegliendo, per prudenza o per vigliaccheria, di affidare ai singoli Stati il riconoscimento graduale della nuova nazione, il Consiglio di Sicurezza sembra approfittarne, lavandosene le mani e considerando la questione un semplice “affare europeo”.
In questo caso è ovvia la pressione della Russia, da sempre protettrice della Serbia, che minaccia il veto al riconoscimento del Kosovo. Meno scontata quella della Cina, che si è aggiunta a Mosca e Belgrado nel niet. Il timore, neanche troppo velato, è di legittimare la sgradita domanda di secessione di altre regioni, come la Cecenia. Peraltro Putin, spregiudicato non solo nel rimanere al potere, mentre diceva no al Kosovo ha fatto dichiarare al governo russo che potrebbe riconoscere prontamente un’eventuale indipendenza di Ossezia e Abkazia, le due spine nel fianco della vicina e non ossequiente Georgia.
La terza preoccupazione è relativa all’Italia. In campagna elettorale saremo capaci di un confronto serio sui temi di politica internazionale? Il prossimo governo giocherà di rimessa attento all’immagine o assumerà reali iniziative di pace? Le responsabilità che abbiamo assunto negli ultimi anni sono difficilmente eludibili.
Infine, un’attenzione e una speranza. In terra kosovara non abitano solo albanesi e serbi che faticano nella convivenza. Una componente – certo minoritaria, ma significativa – èquella rom, mai come quest’anno disprezzata in Europa e nel nostro Paese. Un futuro di pace per il Kosovo, per i Balcani e per l’Europa si costruisce coinvolgendo tutti, senza paura. Ed è possibile. Chi scrive, proprio pensando al Kosovo e ai suoi rom, sa che quella terra ricca di contraddizioni può far nascere fiori meravigliosi.