Nel primo degli incontri sui "Grandi testimoni del Novecento", organizzati dalla Fondazione Ambrosianeum, il senatore a vita ha rievocato il lungo e complesso rapporto avuto con lo statista rapito e ucciso dalle Br proprio trent'anni fa. Commemorata anche la figura di Bachelet


Redazione

08/05/2008

di Andrea GIACOMETTI

Un rapporto che si è saldato lungo i lontani anni universitari, nella comune militanza nel partito dei cattolici e nell’impegno al vertice delle istituzioni, quello tra Giulio Andreotti e Aldo Moro, fino alla tragedia del rapimento e della morte del presidente della Dc, quando Andreotti era presidente del Consiglio.

Un legame fatto di luci e di ombre, certamente con più diversità che analogie, che il senatore a vita ha rievocato alla Fondazione Ambrosianeum, aprendo il ciclo di incontri “Grandi testimoni del Novecento. Profili paralleli”, a cura di Giorgio Campanini e Marco Garzonio.

Tra Moro e Andreotti il rapporto iniziò da una scelta diversa rispetto alla possibilità di scendere in politica, nella Dc clandestina. L’invito di Gonnella fu rivolto a entrambi, allora giovani fucini. «Ma a differenza di me, che accettai – racconta Andreotti -, Moro rifiutò, sostenendo che lo studio doveva essere il nostro impegno principale».

Ma poi le pressioni della Chiesa locale barese ebbero il sopravvento e Moro fu eletto all’Assemblea costituente, un ambito in cui non tardarono a venire alla luce altre tensioni: «Noi romani guardavamo con diffidenza ai “professorini”: soprattutto a Fanfani, che sosteneva che fino ad allora si era sbagliato tutto e tutto andava rifatto».

Già in quel momento, continua Andreotti, Moro si rivelò «una personalità culturalmente eccezionale, con una grande propensione allo studio e alla meditazione, con una leadership indiscussa tra i giovani e una concezione alta e concreta della politica».

Uno stile diverso rispetto al suo, ammette il senatore a vita: «È nota la complessità formale dello stile di Aldo: il suo non era certo un linguaggio con periodi brevi e a risparmio di aggettivi. Spesso i suoi discorsi andavano letti due volte per essere compresi adeguatamente».

Eppure, nonostante tale complessità – ricorda Andreotti -, Moro mostrava di avere una grande capacità comunicativa nei confronti delle persone più semplici, specie quando si recava nel suo collegio pugliese.

Grande la sintonia di Moro con Montini, un rapporto che venne a crearsi negli anni della Fuci e che proseguì nel corso della loro vita. Definitivo e tragico il confronto negli ultimi giorni della vita di Moro, quando Paolo VI rivolse un accorato appello per salvare l’amico con la sua lettera indirizzata «agli uomini delle Brigate Rosse».

Una vicenda su cui il senatore a vita non si è soffermato, pur avendo avuto un indiscusso ruolo di protagonista e testimone privilegiato della lunga diatriba – aprire o meno una trattativa con i rapitori – che accompagnò gli ultimi giorni di Moro. Quella tragedia è stata letta da Andreotti come effetto del «momento di massima esplosione della violenza» nel nostro Paese.

Al professor Renato Balduzzi, professore di Diritto costituzionale all’Università del Piemonte Orientale, il compito di ripercorrere, invece, il profilo di un altro martire della violenza: Vittorio Bachelet, grande giurista e a lungo presidente nazionale di Azione Cattolica.

«Bachelet è stato il protagonista della stagione della scelta religiosa in Azione Cattolica, che lui intese come dono di sé e come necessità di testimoniare una politica giusta». Una testimonianza che Bachelet portò fino alle estreme conseguenze, da lui non ignorate quando rifiutò la scorta che gli era stata destinata: temeva che potesse comportare la morte di altri oltre la sua.

Ti potrebbero interessare anche: