Si comincia a tagliare la spesa per il cibo, ma spesso non si rinuncia al superfluo. Intervista all'economista Luigi Campiglio, pro-rettore dell'Università Cattolica
Redazione
15/07/2008
di Pino NARDI
«Occorre intervenire con una politica di rilancio dei salari, che per essere tale deve partire da una riduzione delle tante aree di spreco dell’economia. Così si crea una disponibilità concreta di risorse da distribuire ai redditi più bassi».
È questa la strada delineata da Luigi Campiglio, pro-rettore e docente di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, per affrontare una stagione di crisi, di paure e incertezze per il futuro. E Milano ha da giocare anche una carta in più: l’Expo.
Salari “fermi” da 15 anni, calo della produzione, taglio della spesa per gli alimentari. Quale stagione stiamo vivendo?
Stiamo attraversando l’ennesimo periodo difficile che segue una congiuntura positiva dell’economia internazionale e italiana, che però non è stata adeguatamente valorizzata nel rafforzamento del livello dei redditi e della produttività. Stiamo vivendo una fase storica, perché dura dai primi anni Novanta, quando il debito pubblico è arrivato al suo massimo. È iniziata poi una serie di manovre di riduzione del rapporto tra spesa pubblica e Pil, che tuttavia è stato quasi intrinsecamente di freno per la crescita economica e dei salari. Tutto questo sta continuando e quando nel 2013 saremo sotto il 100 % del rapporto debito-Pil saranno passati 20 anni. Ma a quel punto ho il timore che sarà troppo tardi. A meno che non si riesca a intervenire prima con una politica di rilancio dei salari. Questo è fondamentale, perché altrimenti non se ne viene a capo.
In questi giorni le indagini registrano una diminuzione anche dei consumi alimentari. È un dato sintomatico…
Esattamente. La diminuzione dei consumi alimentari è di per sé un segnale veramente preoccupante, perché comporta anche a catena un probabile calo della qualità dei beni acquistati e una contrazione di tutte quelle categorie sostituibili o procrastinabili nel tempo, come l’abbigliamento. I saldi sono un esempio lampante di quello che sta avvenendo come modello di consumo: la stagione dei saldi viene anticipata sempre più e tutti hanno aspettato a fare gli acquisti estivi concentrandoli nei primi due-tre giorni di sconti. È una testimonianza dell’attenzione spasmodica sulla questione prezzi, sul potere d’acquisto e sui salari.
È determinato dalla percezione della paura di non farcela, del futuro incerto o c’è un problema reale di mancanza di denaro?
C’è un aspetto psicologico, che però non si costruisce sulle nuvole. C’è un elemento vero di stagnazione, di incertezza che alimenta atteggiamenti di paura. Per esempio, fino a due anni fa sembrava che se non avessimo avuti i fondi pensione questo Paese sarebbe morto; adesso i fondi sono quasi agonizzanti, perché le famiglie vanno dritte alla liquidità e ai titoli di Stato. Sono fenomeni legati alla paura, che però al di là di una certa soglia finisce con aggravare gli elementi obiettivi da cui si era partiti. I meccanismi di spirali che si autorinforzano sono molto comuni nei comportamenti sociali ed economici. L’unico modo per uscirne è quello di spezzarli.
Tuttavia molti si indebitano per la vacanza, lo schermo piatto o l’ultimo modello di cellulare. C’è una contraddizione…
Sì, è il tipico atteggiamento che emerge quando non si riesce a guardare al futuro: allora si punta sul presente, inteso alla giornata. Può apparire contraddittorio, ma esiste una tendenza umana, antropologica, soprattutto nei momenti difficili, di vivere il presente e basta.
È anche una questione educativa, del modo in cui utilizzare il denaro?
Sì, e tutto il male non viene per nuocere. In questo caso può significare altre abitudini, altri stili di vita, magari migliori, e una riduzione degli sprechi a livello pubblico e privato.
Tema ricorrente è quello delle tasse. Il taglio è così dirimente per il rilancio?
Direi proprio di sì. Questo è un Paese in cui su redditi elevati, ma non elevatissimi, si paga ormai il 50% (43% di aliquota più varie addizionali). Siamo tornati a livelli alti di pressione fiscale vera, anche perché l’area del sommerso con l’evasione è molto ampia. È una questione circolare.
Nel mercato del lavoro c’è ancora molto precariato, che crea paura del futuro…
Si potrebbe affermare che senza le riforme introdotte dal mercato del lavoro la situazione sarebbe ancora peggiore. Oppure altri potrebbero dire che in realtà queste novità non hanno dato tutti quei benefici che venivano promessi, perché sembrava che ne sarebbe venuto un rilancio potentissimo all’economia. E così non è stato.
Milano e la Lombardia vivono questa situazione in prima linea…
Certo, ma con un vantaggio in più: per cultura è un’area più abituata a rimboccarsi le maniche e a prendere l’iniziativa. È, però, una qualità da conservare, valorizzare e amplificare.
L’Expo può essere un volano di grande sviluppo economico e sociale…
È una grande opportunità. Ne ho sentito parlare in tanti modi: c’è la questione immobiliare, altri sottolineano l’aspetto turistico di chissà quanti che dall’estero verranno a Milano, non si sa bene a far cosa. Bisognerebbe invece costruire una grande occasione, un momento vero e importante sul tema dell’Expo – che non a caso è un aspetto centrale – dell’alimentazione, dell’agricoltura, dello sviluppo. Sarebbe importante se intorno a questo si riuscisse a costruire un progetto in itinere per cui l’Expo 2015 non diventi come un campionato di calcio. Insomma, non deve finire come Italia ’90. Perché se ci sarà qualcosa di positivo, sarà nel processo di costruzione dell’Expo da subito. Quando arriverà l’Esposizione sarà la ciliegina finale, se le cose funzionano bene. Ma se tutto si riduce all’evento, allora siamo già partiti male.