Tra malcelate virate stataliste, il nazionalismo non aiuterà a uscire insieme dalla crisi finanziaria
Redazione
21/10/2008
di Gianni BORSA
L’Europa cerca contromisure alla crisi finanziaria e, mentre prende provvedimenti interni (sanciti con il Consiglio europeo del 15-16 ottobre), invia negli Stati Uniti il presidente di turno Sarkozy e quello della Commissione Barroso per concordare alcune mosse comuni con il presidente americano George Bush.
Dal mini-vertice di Camp David di sabato scorso è risultata la volontà, condivisa dalle due sponde dell’Atlantico, di sedersi allo stesso tavolo per rintuzzare il rischio di nuovi crolli finanziari e monetari, coinvolgendo non solo i Paesi del G8, ma anche quelli “emergenti”, dalla Cina all’India, fino ad alcuni Stati africani e sudamericani.
Tutti gli osservatori hanno già fatto presente come in realtà si sia di fronte a un complessivo ripensamento del sistema unipolare (con la sola superpotenza americana a trascinare il mondo, diffondendo i suoi stessi alti e bassi) e di quello capitalistico. La Storia impone nuovi players economici che reclamano spazio nel salotto della politica internazionale; le regole del libero mercato appaiono ancora le più valide rispetto ad altre “ricette”, purché riconoscano la necessità di una governance politica non episodica, la quale valorizzi le produzioni e il commercio di beni rispetto alla speculazione finanziaria e sappia tenere in considerazione le potenzialità e le necessità di tutti i soggetti in campo, da quelli più attrezzati e moderni fino a quelli arretrati e bisognosi. Dunque uno sviluppo “sostenibile” sul piano economico, politico, della giustizia internazionale e della tutela ambientale.
Certo, far “quadrare il cerchio” non sarà semplice, ma almeno bisogna provarci, come sostiene da tempo il presidente francese Sarkozy, spingendosi a invocare una «riforma del capitalismo». Altri leader mondiali ed europei più modestamente riconoscono gli ostacoli congiunturali, senza ambire a «imbrigliare la globalizzazione».
Osservando l’Ue in questa fase, sembrano affermarsi almeno due certezze. La prima riguarda la virata statalista in campo economico dei Governi aderenti, anche se nominalmente liberisti. Gli Esecutivi corrono infatti a tappare le falle del sistema finanziario e bancario “investendo” soldi pubblici.
A ciò corrisponde – anche se nessuno lo ammette – un ritorno del nazionalismo politico. Certo mitigato da una solida e diffusa tradizione democratica e da una “propensione internazionale” dei Paesi aderenti all’Unione. Ma pur sempre di nazionalismo si tratta.
Prova ne siano le due questioni sulle quali proprio l’ultimo Consiglio europeo non ha saputo trovare un accordo: il pacchetto clima-energia e il futuro del Trattato di Lisbona. In questi due casi continuano ad avere la meglio gli interessi e talvolta le miopie nazionali rispetto al rafforzamento dell’Ue: rafforzamento che l’economia reclama, ma che la politica non sa ancora plasmare.
L’“Europa delle patrie” può forse funzionare per mitigare gli effetti dei crolli finanziari; ma la vecchia ricetta gollista non basta se si punta a perseguire gli obiettivi di una “casa comune” con solide fondamenta, che dovrebbe valorizzare le radici comuni così come le “diversità”, rendere protagonisti i cittadini, avvicinare i popoli e gli Stati, costruire l’“economia sociale di mercato”, fare dell’Ue un punto di riferimento sulla scena mondiale.