Redazione
Quella dei Giochi è una prova essenziale che la Cina non può fallire e che la comunità internazionale attende per chiudere un lungo periodo di sospetto verso il potere. Quel potere che a Pechino da sessant’anni ha dato l’etichetta di socialismo a un sistema assoluto e intransigente quanto lo fu quello mandarinale e imperiale. Una realtà vasta 15 volte l’Italia, con 25 volte la sua popolazione, e una fame di benessere e di risorse che ne fanno oggi un Paese-pigliatutto, dai pochi scrupoli, ma anche dalle infinite potenzialità.
Sul grande Paese asiatico pesa oggi la solita clausola della Cina post-ideologia, che da pochi giorni ha cancellato l’effige di Mao Zedong dalle banconote sostituendola con i simboli olimpici: tutto è permesso «purché non attenti alla sicurezza dello Stato». Che è come dire: affari, svago, cultura, diversità – persino la voce del Dalai Lama che implora una soluzione per la sua gente in esilio e per il suo popolo oppresso nei confini di un Tibet smembrato e soverchiato dai cinesi – si facciano pure avanti e trovino un proprio spazio, ma non collidano con il ruolo di un partito-stato che ha mostrato di sapere scendere a compromessi, ma il cui pragmatismo non basta a spingerlo al suicidio.