Il 70% dei detenuti di tre istituti di pena africani sono in attesa di giudizio e se al momento dell'arresto sono senza documenti, restano in cella per anni finché qualcuno non si occupa di loro


Redazione

09/09/2008

di Luisa BOVE

Parlare di sovraffollamento nelle carceri del Camerun è quasi un eufemismo. I numeri parlano chiaro: a Mbalmayo ci sono 400 detenuti invece di 150, a Douala 4 mila per 800 posti e a Garoua oltre 1.200 per una capacità di 500. Il 70% dei reclusi è in attesa di giudizio o per meglio dire sta scontando una «detenzione preventiva abusiva». Ma questo non è l’unico problema. Le strutture, che risalgono al periodo coloniale, sono fatiscenti, con impianti idrici e di scarico inutilizzabili; crepe da far piovere nelle celle; scarsa igiene che causa epidemie di scabbia, tubercolosi e malaria; vitto insufficiente (il carcere garantisce solo uno o due pasti alla settimana e i parenti devono provvedere con alimenti o denaro).

Èin un contesto come questo che il Coe di Barzio, presente in Camerun dal 1970, ha deciso di prendersi a cuore la sorte dei detenuti. Un anno fa, grazie al contributo della Fondazione Lambriana, legata alla diocesi di Milano, e all’incoraggiamento dei vescovi locali, ha avviato un progetto nelle tre carceri. «Lo scopo – spiega Daniele Giudici, che in agosto era in Camerun per la Lambriana -, è quello di dare assistenza giudiziaria a tutte le persone che hanno una situazione personale o familiare difficile oppure che vengono arrestate lontane da casa e perdono ogni riferimento».

In questi casi i detenuti, spesso poveri e privi di documenti al momento dell’arresto, non riescono neppure ad avvisare i familiari della loro carcerazione o a farsi portare la carta d’identità. Così diventa impossibile avviare le indagini e giungere a un regolare processo. Molti quindi restano in carcere per anni, finché qualcuno non si occupa di loro. Come quell’uomo che è entrato nel 1974 per un piccolo reato ed è uscito nel 2008 grazie al Coe, che ora mette a disposizione 9 avvocati per i casi più disperati.

Il progetto è coordinato dal camerunese Alex Mbarga, mentre in ogni istituto di pena c’è un referente che tiene i rapporti con il direttore e l’assistente sociale. I volontari invece svolgono attività di sostegno ai detenuti e individuano i casi più gravi da segnalare agli avvocati. Questi operatori si occupano pure dei minori, anch’essi reclusi negli istituti di pena degli adulti, dove spesso nascono seri problemi di promiscuità. A Douala i minorenni sono più di 70, alcuni addirittura di 12-14 anni. Oltre all’assistenza legale ai ragazzi già condannati si cerca di garantire l’istruzione scolastica, l’apprendimento di un mestiere, le cure sanitarie e altro ancora.

Il progetto, che si concluderà nell’estate 2009, ha già dato esiti positivi: 38 detenuti sono stati liberati (di cui 10 minori) e 12 regolarmente giudicati, altri sono stati scarcerati su cauzione o trasferiti in istituti di pena più vicini a casa, altri ancora hanno ottenuto la libertà provvisoria. Inoltre a Garoua la Commissione giustizia e pace della diocesi, che collabora con il Coe, ha realizzato e diffuso un giornale bimestrale di “informazione del prigioniero”.

L’anno prossimo il Coe, che compie 50 anni, vuole puntare sul reinserimento sociale delle detenute. «Grazie anche ad altri partners – spiega Giudici della Lambriana – l’idea è di avviare un progetto specifico per le donne insegnando loro un mestiere (taglio e cucito o altro) oppure offrendo una maggiore istruzione da sfruttare una volta fuori».

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