Mercoledì 10 dicembre, all'Ambrosianeum di Milano, la presentazione di un volume su Cicely Saunders, il medico inglese che inventò le moderne cure palliative, è l'occasione per riscoprire le origini cristiane di questa forma di assistenza
Redazione
09/12/2008
di Francesca LOZITO
«Solo un Dio che soffre può essere d’aiuto»: lo scriveva dal campo di concentramento Dietrich Bonhoeffer. L’affermazione del teologo luterano tedesco vale, secondo Cicely Saunders, anche nel lavoro quotidiano che si svolge in un hospice, «luogo del venerdì santo, ma anche della Pasqua».
A Cicely Saunders, medico inglese che ha “inventato” le cure palliative moderne, mercoledì 10 dicembre, alla Fondazione Ambrosianeum, viene dedicato un incontro in occasione dell’uscita del primo volume tradotto in italiano, Vegliate con me. Hospice, un’ispirazione per la cura della vita (Edb), a cura di Augusto Caraceni, direttore della struttura complessa di cure palliative dell’Istituto Nazionale dei Tumori.
Dice Caraceni: «Cicely Saunders è il punto di riferimento per tutti noi che oggi, a 40 anni dalla fondazione del primo hospice di concezione moderna – il St. Christopher, voluto nel 1967 proprio dalla dottoressa inglese, ndr – ci troviamo a lavorare in questo ambito. Sia per quanto riguarda le radici ideali e spirituali, sia per la concretizzazione di alcune terapie che hanno cambiato il modo di fare la medicina del dolore, tra tutte la somministrazione di morfina a intervalli regolari e non più al bisogno».
I pazienti dovevano stare al centro del percorso di cura, protagonisti con il loro nome e la loro storia personale, e non più semplici numeri in una corsia d’ospedale. Ancora oggi in hospice una cosa che colpisce, percorrendo i corridoi da cui si accede alle stanze, è vedere segnati i nomi degli “ospiti” che si trovano in queste strutture fuori da ogni porta, a voler dire: «Ci prendiamo cura di te, nella tua dignità, fino alla fine».
L’hospice diretto dal dottor Caraceni è stato aperto nel 2006 in un luogo, l’Istituto nazionale dei tumori, dove all’apparenza la sua presenza potrebbe stridere con la possibilità di guarigione auspicata da tutti e, se fosse possibile, per tutti. Ma «in questo posto – ammette Caraceni – occorreva l’hospice quale “cuneo”, isola di un’umanità possibile anche quando la tecnica non riesce a fare più nulla. In cui continuare a curare con il massimo di professionalità, oltre che di umanità».
Una decina di posti letto, un ambiente accogliente, spazi comuni in cui familiari e pazienti possono avere la possibilità di vivere e trovare il senso degli ultimi giorni dell’esistenza. A supportarli un’équipe multidisciplinare qualificata, medici, infermieri, operatori sociali, psicologi e un’assistenza spirituale che proprio la Saunders includeva tra i pilastri irrinunciabili della medicina palliativa.
Spiegano i due assistenti spirituali dell’Int, don Tullio Proserpio e don Giovanni Sala, sacerdoti ambrosiani che prendono parte attiva al lavoro dell’hospice: «Noi ci mettiamo accanto ai malati e custodiamo quelle domande vere che emergono e che sono anche le nostre, nella consapevolezza che non si tratta tanto di dare la risposta quanto piuttosto di compiere un cammino e intuire un senso in mezzo al non senso».
E la Saunders parte proprio da qui, «dall’educazione alla veglia comune», come lei la definisce, dall’importanza estrema dell’«esserci» (being there), che non vuol dire limitarsi a stare al capezzale di chi sta morendo. «Mi ha molto colpita – dice Paola Bignardi, ex presidente nazionale di Azione Cattolica e oggi direttore della rivista Scuola italiana moderna, presente alla serata di mercoledì – questo aver colto da parte della Saunders (prima evangelica e poi anglicana, ndr) l’aspetto evangelico della “Veglia”, che noi associamo troppo spesso a un discorso solo di fede e che nei suoi scritti come nella sua opera diventa parte attiva del lavoro suo e delle persone che operarono con lei».
Le fa eco il presidente della Società italiana di cure palliative, Giovanni Zaninetta: «Riscoprire le origini cristiane delle moderne cure palliative ha un valore storico e pratico. Non può essere un limite per chi non vive un’esperienza religiosa, ma per quelli che condividono questa aspirazione deve essere uno stimolo forte alla testimonianza».