La testimonianza del vescovo di Baghdad Sleiman: oltre i combattimenti e il terrorismo, è davvero difficile alimentare la fede e mantenere salda la speranza in un futuro di pace
Redazione
28/02/2008
di Rosangela VEGETTI
Monsignor Jean Benjamin Sleiman, originario del Libano e religioso carmelitano, èarcivescovo cattolico a Baghdad dal 2001. Quando parla della martoriata terra irachena ne presenta la realtà di grande sofferenza, di storiche lacerazioni e di difficile prospettiva futura.
«Tutti mi chiedono quanti sono i cristiani in Iraq. Non c’è risposta chiara. Si dice che nel 2001 fossero 750 mila, circa il 3% dei 25 milioni di iracheni. Oggi non si possono dare cifre perché nessuno ha fatto un censimento e si dice per pressappoco: “in chiesa ormai ho la metà dei fedeli”. Cosa vuol dire questo? Che forse sono fuggiti altrove, sono andati all’estero o sono rintanati in casa e non osano farsi vedere; oppure sono morti. Tutto è plausibile, nella situazione di incertezza in cui viviamo».
Quel che è certo è che la popolazione cerca di andarsene, di trovare vie di fuga e l’esodo sembra il principale obiettivo di molte famiglie; in Siria, Giordania e Libano sono ormai decine di migliaia i profughi iracheni. Così i cristiani sono forse dimezzati e, purtroppo, molto divisi al loro interno: ci sono le comunità storiche di cattolici (caldei, siro-cattolici, armeni cattolici, greci cattolici e latini), ortodossi (assiri, siro-ortodossi, armeni gregoriani, orientali bizantini, e greci ortodossi) e protestanti.
In più, l’arrivo con l’esercito Usa delle sette americane evangelicali e pentecostali ha accresciuto i problemi: si muovono da “occupanti”, ignorando quanto le Chiese storiche hanno fatto e sofferto nel passato e nel presente. Da segnalare un’iniziativa dei Padri domenicani, che a Baghdad stanno aprendo un’università libera, gratuita, aperta a tutti senza bisogno di titoli di studio precedenti, allo scopo di investire sulla formazione di un numero maggiore di persone.
Tra le Chiese storiche vige una buona convivenza: garantiscono alla popolazione un’appartenenza anche culturale. La maggioranza dei fedeli cristiani sono di lingua araba, ma non sono arabi, così come le antiche liturgie non hanno formule arabe. C’era una primitiva comunità cristiana di lingua araba: di essa, però, si sono perse le tracce.
Basta parlare brevemente con monsignor Sleiman per capire quanto noi occidentali ignoriamo di ciò che accade in quel Paese: non solo si stanno scontrando interessi economici e strategie politiche di vasta portata, ma si giocano anche carte importanti per il futuro di tutto il mondo.
La pretesa di “imporre” la democrazia con le armi ha evidenziato e rafforzato le spinte identitarie dei nazionalismi e ha accentuato la corsa alla speculazione delle principali risorse economiche – acqua e petrolio – che determineranno i prossimi conflitti.
Alla cittadinanza giunge il messaggio che la politica è un inganno e che solo unendosi nella difesa della propria origine e della propria fede si può garantire il domani e avere un posto nel mondo della globalizzazione. Così alla forza si risponde con la chiusura nazionalistica e fondamentalista e gli stessi partiti politici si limitano al proprio contesto nazionale.
Nella trappola irachena – titolo del libro-testimonianza di monsignor Sleiman – i cristiani sono i più danneggiati, relegati a un’emarginazione che lui chiama «dramma della dhimmitudine», la situazione di chi è soggetto a un altro cui deve obbedienza e tributi: i dhimmi sono contrapposti ai fedeli e loro sottomessi. «Il principio della dhimmitudine – dice il vescovo – èla disuguaglianza fondamentale tra il credente musulmano e i fedeli di altre religioni».
Da tale situazione non è facile intravedere spiragli di luce e di pace. È proprio in questo momento che l’Occidente dovrebbe dare un aiuto, non solo di parole, ma di vicinanza, di rafforzamento e di solidarietà, oltre che di azione politica, per costruire la pace per tutti.