Il professor Antonio Papisca, esperto di relazioni internazionali: «La comunità mondiale deve far sentire la sua voce e aiutare la popolazione, che è disperata»
Redazione
26/03/2008
a cura di Patrizia CAIFFA
«Con la violenza non si risolvono i problemi, ma solo si aggravano»: così Benedetto XVI nel suo appello per il Tibet del 19 marzo scorso. Lo stesso giorno in cui il Dalai Lama ha lanciato un appello per la ripresa del dialogo con la Cina, minacciando le dimissioni se le violenze, anche dei tibetani, non si fossero fermate. Ne abbiamo parlato con Antonio Papisca, docente di Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani all’Università di Padova.
Come valuta la posizione del Dalai Lama?
È una posizione coerente, anche se difficile. È una testimonianza forte. Il Dalai Lama ha già compiuto atti importanti, perché ha “laicizzato” la Costituzione del Tibet in esilio. Ha agganciato la Costituzione alla Dichiarazione universale dei diritti umani, quindi a un’etica pacifica, non violenta. Lui si trova a essere il capo della parte mondana in esilio, però come capo fa prevalere la dimensione spirituale.
Però nella storia non sempre i leader spirituali non violenti sono riusciti a controllare i movimenti del popolo…
Certo, ci sono delle contraddizioni. Però la via dei diritti umani è la via del perfezionamento. Sono processi graduali. Una risorsa per portare avanti questi discorsi non violenti è sicuramente la coerenza dei comportamenti con i valori che si professano. Vediamo se i tibetani lo seguono. Altrimenti perderebbero consenso a livello mondiale, perché c’è grande simpatia nei confronti del Dalai Lama e della causa dei tibetani, da sempre considerati non violenti, testimoni nonostante le sofferenze.
C’è anche chi contesta al Dalai Lama di non chiedere l’indipendenza…
Esiste il rischio che gruppi di persone contraddicano la filosofia religiosa del buddhismo tibetano. È ragionevole che il Dalai Lama chieda l’autonomia. Lui giustamente fa i conti con la realtà, e chiede intanto l’autogoverno, che significa autonomia avanzata. Il che non esclude che possa e debba esserci la piena indipendenza, per salvaguardare l’identità del popolo, garantita dal diritto internazionale.
La comunità internazionale sta facendo abbastanza per il Tibet?
La comunità internazionale deve far sentire la sua voce e aiutare la popolazione tibetana, che è disperata. È in atto un processo di genocidio culturale che uccide l’identità. Deve premere ora, visto che la Cina tiene molto alla sua immagine, perché ha voluto essere eletta nel Consiglio per i diritti umani. Nel suo atto di autocandidatura di un anno fa c’era un impegno forte a ratificare i trattati internazionali dei diritti umani.
Quali consigli?
Non bisogna lasciare solo il Dalai Lama. Bisogna difenderlo cogliendo l’elemento di coerenza di quest’uomo, che è un difensore dei diritti umani. A suo sostegno servono dichiarazioni di ripudio della violenza da qualunque parte provengano. A tutti i livelli, agendo con accortezza e furbizia, ci deve essere una fortissima reazione della comunità internazionale, sfruttando la congiuntura storica di una Cina sempre più intrappolata nel sistema mondiale. Fino a qualche tempo fa la Cina si teneva fuori dal sistema organizzato dei diritti umani. Ora ha cominciato a ratificare i trattati internazionali, e questo comporta l’accettazione di una autorità internazionale di controllo. È anche buona la proposta dell’Italia di inviare la troika dell’Ue a Lhasa e a Pechino. Un azione del genere dovrebbe essere condotta all’interno del dialogo Ue-Cina, un percorso politico-diplomatico con scambi di idee sui diritti umani.
E alle Olimpiadi?
Alle Olimpiadi le squadre dovrebbero andare con la bandiera nazionale e un bel cartello accanto, durante la sfilata iniziale e durante le premiazioni. Ogni delegazione dovrebbe adottare un diritto umano diverso. Per esempio il diritto all’identità culturale, il diritto alla vita, ecc. Questo è un modo di fare pressione molto più efficace del boicottaggio. Non serve dare schiaffi agli atleti e umiliare lo sport. Approvo però la proposta che i capi di Stato e Governo boicottino la cerimonia di apertura, mandando delegazioni di rappresentanza a livello inferiore.