Il missionario lecchese del Pime assassinato ad Arakan, nel ricordo del confratello padre Luciano Benedetti: «Li difendeva e questo gli è stato fatale»

di Mauro COLOMBO

Padre Fausto Tentorio

«Aveva sposato completamente la causa degli indigeni e questo, alla fine, gli è stato fatale». Padre Luciano Benedetti, missionario del Pime, conosceva bene il confratello Fausto Tentorio, il padre lecchese ucciso stamane nel Sud delle Filippine, a 59 anni. «Siamo stati ordinati insieme – ricorda – e insieme siamo partiti per le Filippine, nel 1977. Io ero in un’altra missione, più a ovest, e sono rientrato in Italia un mese fa, ma vedevo padre Fausto due volte all’anno, in occasione degli incontri periodici dei missionari».

Secondo quanto riferito dalle stesse fonti del Pime, padre Fausto – nato il 7 gennaio 1952 a Santa Maria di Rovagnate (Lecco) e cresciuto a Santa Maria Hoè – è stato assassinato davanti alla sua parrocchia di Arakan, North Cotabato (Mindanao). Verso le 8 del mattino stava salendo sulla sua auto per recarsi a Kidapawan, a 60 chilometri dalla missione, per un incontro diocesano, quando un killer con casco in motocicletta si è avvicinato e ha sparato diversi colpi, raggiungendolo alla schiena e alla testa.

«Un omicidio premeditato – padre Benedetti non ha dubbi -, legato all’impegno profuso da padre Fausto in difesa delle popolazioni indigene, i cui diritti sulla terra erano minacciati dagli interessi dei grandi latifondisti». Da oltre 32 anni Fausto lavorava a stretto contatto con la popolazione locale dei Manobos, formando e organizzando piccole comunità montane. Cercava di rispondere alle loro necessità quotidiane, ma questo l’ha inevitabilmente posto nel “mirino” di forze molto potenti e interessate al possesso di quelle terre, ricche di risorse minerarie. Già nel 2003 il missionario era sfuggito a un attentato, e in quell’occasione era stato protetto dagli stessi Manobos. Due anni fa era stato fatto oggetto di nuove minacce.

Negli ultimi tempi, però, la situazione sembrava più tranquilla. «L’avevo incontrato in agosto e non l’avevo visto per nulla preoccupato – racconta ancora padre Benedetti, che a sua volta fu rapito nel 1998 e rimase nelle mani dei sequestratori per quasi tre mesi -. Sembrava anzi molto contento del lavoro che stava conducendo. Trovandosi in una zona rurale, non aveva problemi di rapporti con gli estremisti islamici. Prendeva le difese dei più poveri puntando sul dialogo per appianare le controversie e trovare soluzioni condivise. Ma anche così si rischia di passare per “rompiscatole” e quindi di trovarsi in pericolo».

Ora rimane il ricordo di un missionario «molto socievole, che usava il basso profilo per accostarsi ai suoi interlocutori – ricorda padre Benedetti -. Padre Fausto era una persona semplice, che a partire dal vestiario si metteva allo stesso livello degli indigeni con cui viveva». Persone, come lui stesso ha scritto in una lettera, «squisite, che ti chiedono cento volte scusa se ti passano davanti mentre stai parlando, che si alzano dalla sedia per lasciarti il posto, che ti sorridono e ti salutano anche se non sanno chi sei, che ti contagiano con la loro genuinità ed allegria, che hanno poco, ma quel poco lo devono condividere anche con te, straniero, bianco, di usi e costumi diversi…».

 

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