Lettera per il tempo di Quaresima e il Tempo di Pasqua

di Mario DELPINI
Arcivescovo di Milano

 

Carissimi,

nell’anno 2020 le celebrazioni liturgiche del tempo di Pasqua sono state mortificate dal dilagare della pandemia che ha imposto il primo lockdown. Le celebrazioni del Triduo Pasquale sono avvenute in chiese deserte e sono state seguite a distanza, grazie ai mezzi di comunicazione disponibili. Alcune famiglie hanno vissuto celebrazioni domestiche adatte a fare memoria del mistero pasquale. Tutti i credenti hanno sentito la mancanza della celebrazione liturgica comunitaria.
Nell’anno 2021, a Dio piacendo, celebriamo di nuovo la Pasqua secondo la tradizione cattolica in rito ambrosiano e in rito romano. Vorremmo che non fosse solo una replica di abitudini acquisite: chiediamo la grazia non solo di celebrare di nuovo la Pasqua, ma piuttosto di celebrare una Pasqua nuova.
Infonda Dio sapienza nel cuore perché ci sia dato di conoscere con più intensa gratitudine e con più profonda commozione il mistero di Cristo. Secondo le suggestioni della proposta pastorale per l’anno 2020/2021, chiediamo al Signore di ascoltare la preghiera di Paolo: «Continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (Ef 1,17).
Il mistero della Pasqua, che voglio introdurre con questa lettera, è la rivelazione ultima e piena di quella sapienza che invochiamo: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).
Solo persone nuove possono celebrare la Pasqua nuova, perché, ricolme della pienezza di Dio, si radunano, pregano, cantano, con cuore nuovo. Pertanto più seria e attenta dovrà essere la celebrazione della Quaresima, accogliendo la Parola che chiama a conversione.
La sapiente pedagogia della Chiesa conduce al cuore del mistero con la celebrazione dei santi misteri, la proclamazione della Parola di Dio, l’indicazione di opere di misericordia. È giusto riconoscere che la “proposta pastorale” è già scritta.
Mi permetto di richiamare alcuni aspetti che mi preme sottolineare.

LA CORREZIONE…
«… arreca un frutto di pace e di giustizia»
(Eb 12,11)

La tribolazione che stiamo vivendo in questa pandemia ha costretto alcuni a lunghe solitudini, altri a convivenze forzate. Molti forse hanno sperimentato quell’emergenza spirituale che inaridisce gli animi e logora la buona volontà e rende meno disponibili ad accogliere la correzione e le proposte di nuovi inizi.
Questo è il momento opportuno per domandarsi perché l’inerzia vinca sulla libertà, perché il buon proposito si riveli inefficace, perché la parola che chiama a conversione invece che convincere a un percorso di santità possa essere recepita come un argomento per criticare qualcun altro.
Non c’è, evidentemente, una risposta semplice né una soluzione in forma di ricetta. Per offrire un contributo e per incoraggiare una riflessione comunitaria, in questa Quaresima propongo di svolgere il tema della “correzione”. La tradizione cattolica nutrita dalla rivelazione biblica offre materiale abbondante.

Dio corregge il suo popolo
La correzione è anzitutto espressione della relazione educativa che Dio ha espresso nei confronti del suo popolo. Come una madre, come un padre amorevole «a Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano […]. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. […] Il mio popolo è duro a convertirsi» (Os 11,3ss); «Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te» (Dt 8,5).
La metafora deve essere naturalmente interpretata alla luce della rivelazione cristiana. Non sembra pertinente, infatti, interpretare le tribolazioni della vita e le disgrazie come puntuali interventi di un Dio governatore dell’universo, intenzionato a punire il popolo ribelle per correggerlo. Dio, invece, corregge il suo popolo cercandolo e parlandogli in ogni momento di tribolazione e in ogni luogo di smarrimento. Lo richiama con una misericordia sempre più ostinata della stessa nostra ostinazione nella mediocrità del peccato. Lo trae a sé con vincoli d’amore ogni volta che, intontito in una sazietà spensierata o incupito in disgrazie deprimenti, chiude l’orecchio alla sua voce. Lo libera dall’asservimento agli idoli, dalla schiavitù del peccato.
La correzione di Dio è il dono dello Spirito, frutto della Pasqua di Gesù, lo Spirito che a tutti ricorda Gesù, speranza affidabile, cammino praticabile. La predicazione apostolica chiama a questa conversione: «All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”» (At 2,37).

La correzione nella comunità cristiana
Il tempo quaresimale può anche essere l’occasione per riflettere sull’opera educativa che la comunità e la predicazione svolgono in ordine alla correzione del popolo cristiano in nome di Dio.
Nella comunità cristiana la correzione ha la sua radice nell’amore, che vuole il bene dell’altro e degli altri. Non possiamo sopportare quella critica che non vuole correggere, ma corrodere la buona fama, la dignità delle persone; non possiamo sopportare quel modo di indicare errori e inadempienze che sfoga aggressività e risentimento.
Nel dibattito pubblico sono frequenti parole ingiuriose e toni sprezzanti che umiliano le persone, senza aiutare nessuno.
Nel linguaggio paradossale del Vangelo, Gesù mette in guardia dalla pretesa di giudicare i fratelli: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?» (Mt 7,3). Nello stesso tempo Gesù raccomanda la via della correzione fraterna per edificare la comunità nella benevolenza: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo» (Mt 18,15).
La correzione fraterna è una forma di carità delicata e preziosa. Dobbiamo essere grati a coloro che per amore del bene della comunità e del nostro bene ci ammoniscono. Tutti ne abbiamo bisogno: il vescovo, i preti, coloro che hanno responsabilità nella comunità e nella società. Credo che dobbiamo molta gratitudine a papa Francesco che in tante occasioni, con fermezza e parole incisive, invita a essere più docili allo Spirito e più coerenti con le esigenze del Vangelo. Ne abbiamo bisogno: confidiamo che ci siano fratelli e sorelle capaci di unire la franchezza con la benevolenza.
Abbiamo la responsabilità di aiutare i fratelli e le sorelle anche con la correzione, proposta con umiltà e dolcezza, ma insieme con lucidità e fermezza.
La correzione è un aspetto della relazione educativa che conosce nella nostra sensibilità contemporanea una evidente difficoltà, quasi un’allergia. Il difficile ruolo del genitore, un diffuso sentimento di inadeguatezza, un insieme di sensi di colpa, insomma fenomeni molto complessi inducono spesso genitori, educatori, adulti in genere a rinunciare all’intervento educativo, quando si tratta di correggere atteggiamenti sbagliati. D’altro lato, l’insofferenza istintiva di ragazzi e adolescenti rende frustrante l’opera educativa e mortifica la buona volontà.
Diventa così opportuno rivisitare il tema con una sapienza cristianamente ispirata, resa concreta e incoraggiante dalle esperienze e riflessioni di genitori, insegnanti, educatori e di psicologi e pedagogisti.

Le resistenze
Dobbiamo constatare tuttavia che «sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza» (Eb 12,11).
Il rapporto amorevole dei genitori con i figli non basta a fare della correzione un motivo di limpida gratitudine, contiene anche un aspetto di tristezza, di reazione contraria che si esprime in modi differenti nelle diverse età della vita. Non potrà essere più semplice la dinamica della correzione nei rapporti fuori della famiglia, anche se talora l’autorevolezza dell’educatore, dell’allenatore, del capogruppo può ottenere più immediato consenso.
Nelle dinamiche dei rapporti ecclesiali si possono constatare analoghe resistenze e talora reazioni poco disponibili alla correzione.
In una certa fase dell’evoluzione personale la “ribellione” può essere un passaggio per la definizione della propria personalità nella percezione della differenza e del limite. Ma nella nostra ostinazione di peccatori come possiamo giustificare la resistenza al Signore che chiama a conversione? Come e perché opponiamo resistenza alla Chiesa che annuncia il tempo di grazia perché «il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Come e perché si reagisce con insofferenza e suscettibilità ai fratelli e alle sorelle che hanno l’umiltà e l’ardire di praticare la correzione fraterna?
La superbia, la suscettibilità, la superficialità, la confusione, il conformismo sono pastoie che inceppano il cammino, vincoli che non ci permettono di essere liberi, ferite di cui non vogliamo essere curati. Il tempo di Quaresima è il tempo opportuno per dare un nome alle radici della resistenza e invocare la grazia di estirparle.

PERCORSI PENITENZIALI
«Se confessiamo i nostri peccati…»
(1Gv 1,9)

Il tempo di Quaresima è tempo di grazia, di riconciliazione, di conversione.
Lo Spirito di Dio tiene vivo in ciascuno di noi un desiderio di santità, un dolore per i propri peccati, un desiderio di perdono.
Il sacramento della riconciliazione è un dono troppo trascurato. Il tempo della pandemia ha fatto constatare con maggior evidenza una sorta di insignificanza della confessione dei peccati nella vita di molti battezzati. Il tema è molto ampio e complesso. La proposta di questa Quaresima è di affrontare in ogni comunità il tema dei percorsi penitenziali e delle forme della confessione per una verifica della consuetudine in atto, un confronto critico con le indicazioni del rito e le diverse modalità celebrative indicate.

La penitenza cristiana
Quando si parla di confessione, nelle nostre comunità cristiane, è spontaneo il riferimento alla celebrazione del sacramento della riconciliazione. In realtà nella vita cristiana la confessione dei peccati per accogliere il perdono di Dio si esprime in modi diversi: «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità» (1Gv 1,9).
Nella celebrazione eucaristica la confessione della nostra condizione di peccatori e la richiesta di perdono è presente in modi diversi: nell’atto penitenziale, nella preparazione immediata alla comunione, talora anche nella eucologia della messa e nella preghiera eucaristica.
Nella liturgia delle ore e nella preghiera personale la richiesta di perdono ricorre regolarmente.
Secondo la tradizione cattolica, il perdono dei peccati è frutto di un atto sincero di contrizione, quando non fosse possibile accedere alla confessione sacramentale.
La stessa celebrazione del sacramento della riconciliazione può essere celebrata in tre modalità: la confessione e assoluzione individuale, la celebrazione comunitaria con confessione e assoluzione individuale e la forma dell’assoluzione generale. Non mi sembra che si siano date e si diano le condizioni per l’assoluzione generale, che è però disponibile in casi di emergenza, secondo le forme previste. Invito a rivolgere l’attenzione e a vivere con fede la confessione individuale e la celebrazione comunitaria nella riconciliazione con assoluzione individuale.

Tornare al sacramento della riconciliazione
La confessione individuale è la forma pratica più diffusa e abituale. L’incontro personale del penitente con il confessore è sempre dentro la Chiesa, nella consapevolezza che il peccato ha sempre dimensione comunitaria e quindi come danneggia il peccatore così pure impoverisce la comunità. La pandemia ha fatto nascere tante paure, fino a temere l’incontro personale con gli altri, quindi anche la confessione. È dovere dei pastori curare le condizioni per cui il dialogo penitenziale possa avvenire in ambiente adatto e in sicurezza. Ma credo che oggi sia più che mai importante l’incontro con il confessore per dialogare, aprirsi alla Parola di Dio, porre domande, accogliere i consigli, invocare quel perdono che lo Spirito di Dio ci fa desiderare.
Alcuni aspetti del mistero della riconciliazione sono meglio espressi nella celebrazione comunitaria. L’esperienza che il clero vive all’inizio della Quaresima è esemplare e può essere paradigmatica: non può essere l’unica forma, ma credo che sia un errore non riproporla. È infatti necessario recuperare alcuni aspetti che nella confessione individuale rischiano di essere troppo trascurati.
Anzitutto la dimensione ecclesiale del percorso penitenziale: il penitente che chiede il perdono non è un individuo isolato che “mette a posto la coscienza”, è invece persona inserita in una comunità. Ogni virtù rende più bella la comunità, ogni peccato la ferisce.
Questo cammino di conversione è inoltre guidato, provocato, incoraggiato dalla Parola di Dio: perciò ascoltare insieme la Parola, esercitarsi insieme nell’esame di coscienza deve portare alla consapevolezza che cerchiamo la confessione non per trovare sollievo a sensi di colpa che ci tormentano, ma per rispondere al Signore che ci chiama e ci aiuta a leggere la nostra vita con lo sguardo della sua misericordia.
E ancora: la celebrazione comunitaria mette in evidenza la grazia del perdono come gesto ecclesiale che rinnova la grazia battesimale.
Infine: pregare insieme, riconoscersi insieme peccatori, accogliendo l’indicazione di una penitenza comunitaria, incoraggia la perseveranza nel bene e la coerenza della vita.
Invito ogni comunità a predisporre tempi e luoghi adeguati per favorire la confessione individuale e invito a programmare celebrazioni comunitarie della riconciliazione nei momenti opportuni della Quaresima, facilitando la partecipazione con celebrazioni adatte alle varie fasce di età.

I frutti del perdono
Il peccatore perdonato vive nella gratitudine e riconosce che la docilità allo Spirito di Dio l’ha condotto a quell’incontro con il Padre buono che lo attrae e lo attende: desidera che si faccia festa.
La confessione nella forma individuale o nella celebrazione comunitaria con assoluzione individuale sempre porta frutti di carità e di gioia. Prepara cioè alla Pasqua.
La preparazione alla gioia della Pasqua è frutto della docilità allo Spirito che rende disponibili alla gioia. La gioia cristiana, infatti, non è l’euforia di un momento, ma un frutto dello Spirito che rende capaci di accogliere le parole che Gesù ha confidato ai suoi discepoli: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Non si tratta quindi di uno “star bene con se stessi” che si presenta come il frutto desiderabile di una spiritualità egocentrica, ma di una irradiazione della grazia ricevuta che coinvolge fratelli e sorelle. Si sperimenta infatti che la gioia secondo lo Spirito deriva spesso dalla dedizione a prendersi cura della gioia degli altri.
La sollecitudine per gli altri si manifesta in concreto nelle opere di carità. L’espressione del testo biblico che quest’anno ho proposto per la lectio è incisiva e illuminante: «L’elemosina espia i peccati» (Sir 3,30). È evidente che non si tratta di lasciar cadere una moneta nelle mani di un mendicante. Piuttosto si tratta di imitare quel samaritano che, passando accanto alla vittima dell’aggressione dei briganti, «vide e ne ebbe compassione» e si prende cura di lui (cfr. Lc 10,29-37). Il peccatore perdonato non è solo colui che ha consegnato alla misericordia di Dio il suo passato, è piuttosto colui che ha consegnato al Signore la sua vita per portare a compimento la sua vocazione all’amore. Il perdono non è una storia che finisce, ma una vita nuova che comincia, anche in famiglia, anche sul lavoro, anche nel condominio…

CELEBRIAMO LA PASQUA…
«… rivestiti di potenza dall’alto»
(Lc 24,49)

Il tempo pasquale è gioiosa attesa di colui che il Padre ha promesso: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8).

Alleluia!
Alleluia! Alleluia! C’è un’esultanza nel canto dell’alleluia pasquale che ha un’intensità unica. Le espressioni “trattenute” del nostro giubilo sembrano quasi una costrizione della gioia nell’angustia di un adempimento.
La storia della musica e del canto liturgico propongono tante interpretazioni dell’alleluia e le nostre corali nei giorni di Pasqua sanno far vibrare non solo le vetrate ma anche i cuori dei presenti.
È la gioia che viene da Dio: alleluia!
La morte è stata vinta, Gesù è risorto! Alleluia!
Viviamo di una vita che non finisce, la vita di Dio! Alleluia!
La morte in croce di Gesù ha rivelato il compimento dell’amore e la potenza di Dio che ha irradiato la sua gloria per riempire tutta la terra! Alleluia!
Con il battesimo siamo introdotti nel popolo santo di Dio! Alleluia!
La vita nuova che ci è donata è principio del popolo nuovo, Chiesa dalle genti, che percorre la terra per annunciare la speranza: Alleluia!
I nostri peccati sono stati perdonati! Alleluia!
L’amore che viene da Dio ci rende fratelli e sorelle con legami d’amore che ci rendono un cuore solo e un’anima sola: Alleluia!
La celebrazione della Pasqua si distende per cinquanta giorni e lo Spirito di Dio ci aiuta a entrare nel mistero accompagnati dai riti della liturgia.
Invito ogni comunità a curare le celebrazioni. Il gruppo liturgico, le corali, il Consiglio pastorale, le diverse tradizioni culturali e abitudini celebrative presenti nella Chiesa dalle genti, tutti possono essere chiamati a contribuire per interpretare e predisporre i segni del convenire, la festosa cornice dell’ambiente, le luci, i profumi, i canti, tutto quello che precede e segue la celebrazione. Sarebbe bello che tutto l’ambiente circostante si rendesse conto che i cristiani stanno celebrando la Pasqua, la festa che dà origine a tutte le feste, non solo per un solenne concerto di campane, ma soprattutto con un irradiarsi della gioia, della carità, delle parole della speranza.

«Proclamiamo la tua resurrezione»
Il mistero pasquale risplende nel suo centro sorgivo dell’annuncio della risurrezione, impopolare, incomprensibile per la cultura del nostro tempo. Anche nei secoli passati, anche al principio della missione cristiana nel mondo, anche nella tradizione biblica il tema della speranza nella risurrezione è piuttosto straniero.
La sapienza di Gesù Ben Sira offre molti spunti utili per la vita, ma non affronta i temi ultimi, come molta parte della tradizione biblica e della cultura antica. E il fallimento della predicazione di Paolo ad Atene attesta che la risurrezione della carne suonava fantasia ridicola alla sapienza della cultura ellenistica.
Nel nostro tempo non siamo molto originali: anche la cultura contemporanea, almeno quella che si respira nel contesto europeo, mi sembra incline a escludere la risurrezione della carne dall’orizzonte del pensiero e dell’immaginazione. Mi sembra quindi che si possa dedurne che la speranza di vita eterna non trova casa in Europa: la risurrezione di Gesù e la promessa che ne viene suonano affermazioni incomprensibili e incredibili. Per conto mio, ne ricavo l’impressione che il ritorno di interesse per la spiritualità o addirittura la ricerca di Dio siano espressione di una ricerca di qualche forma di contributo per “stare bene con se stessi”.
Talora si ha l’impressione che i cristiani siano smarriti e timidi nel custodire questa differenza decisiva rispetto a coloro «che non hanno speranza» (1Ts 4,13). I cristiani sembra che siano più riconoscibili per una specie di malumore nei confronti del tempo in cui vivono, per un richiamo a precetti morali, invece che, in primo luogo, per il fatto che confessano lieti la risurrezione di Gesù, credono la risurrezione della carne e la vita eterna, sperano nella risurrezione con lui, per sé e per tutti.
Sento la responsabilità di fare quello che posso e invitare tutti a rinnovare l’annuncio della risurrezione e la testimonianza nella nostra fede nel Crocifisso risorto.

I giorni del Cenacolo
Quando mi chiedo perché il papà e la mamma si sono sentiti inadeguati all’educazione cristiana dei loro figli, perché il testimone si è intimidito, perché il maestro si è confuso, perché l’apostolo si è stancato, perché i cristiani si sono omologati allo stile mondano, non sono portato a rimproverare le sorelle e i fratelli o me stesso, a cercare colpevoli o a denunciare l’arroganza delle potenze mondane, dei principati e delle potestà. Piuttosto sono convinto che siamo chiamati a essere più docili allo Spirito Santo e a ricevere da lui fortezza e pace per perseverare nella testimonianza del Risorto.
Rimane sempre il comandamento di Gesù: «Voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,49). La missione, la “Chiesa in uscita”, la fortezza dei martiri, la sapienza dei maestri, la perseveranza nell’opera educativa non sono frutto di un volontarismo più tenace, di un gusto più temerario per affrontare le sfide. Piuttosto la missione in tutte le sue forme è frutto della docilità allo Spirito.
Perciò rinnovo l’invito a vivere i cinquanta giorni del tempo pasquale come i giorni del Cenacolo: «Salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi […]. Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1,13.14).
Con questa immagine della prima comunità raccolta in preghiera intendo richiamare la dimensione contemplativa della vita, quel tempo dedicato all’ascolto della Parola di Dio, delle confidenze di Maria, madre di Gesù, perché la nostra vita sia rivestita della potenza che viene dall’alto. Per portare a compimento la nostra vocazione, infatti, abbiamo bisogno non di una forza che ci garantisce risultati, ma di una conformazione allo stile di Gesù, della fortezza nella coerenza, della fedeltà fino alla fine.
Nel mese di maggio, nella Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni di speciale consacrazione, nei momenti in cui è necessario fare delle scelte, dimorare nel Cenacolo vuol dire lasciarsi ispirare dalla parola di Gesù e dai doni dello Spirito. Vivere la vita come una vocazione significa infatti compiere le proprie scelte in obbedienza al Signore che chiama, che manda.

CONCLUSIONE

Carissimi fratelli e sorelle, incoraggio ancora a lasciarsi condurre dallo Spirito e dalla sapiente pedagogia della Chiesa che educa il popolo santo di Dio con la grazia dei sacramenti e la luce della Parola di Dio.
Ho pensato di mettere in evidenza due attenzioni che il mistero pasquale richiama sempre e che a me sembrano particolarmente importanti. La fede nella risurrezione di Gesù, principio della nostra speranza di vivere per sempre con lui, è, infatti, il fondamento decisivo per vivere una relazione personale con Gesù, vivo, presente, Maestro e Signore.
In questo rapporto personale accogliamo l’invito a conversione riconoscendo i nostri peccati e la sua misericordia.
In questo rapporto personale è pronunciata ancora e sempre la parola della missione, per essere testimoni della risurrezione.
In questo rapporto personale con Gesù si cresce nella consapevolezza che la nostra vita è una vocazione e che abbiamo la responsabilità di scelte di vita e di
coerenza per dare compimento alla vocazione di tutti a «essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4).
Affido questa lettera a tutti i fedeli della diocesi.
Chiedo ai Consigli pastorali e in particolare ai miei più stretti collaboratori, preti e diaconi, di considerare le riflessioni che offro, di verificare la prassi presente nelle comunità, di proporre le attenzioni e le iniziative che possono contribuire a richiamare tutti ad accogliere la gioia della Pasqua e della vita nuova in Cristo e a lasciarsi toccare il cuore dalla Parola che chiama a conversione.
Invoco per tutti ogni benedizione e invito a pregare perché la sapienza che viene dall’alto (cfr. Gc 3,17) ispiri il nostro cammino.

Gesù, sapienza del Padre,
sapienza pura, purifica il nostro cuore
perché possiamo vedere Dio;
sapienza di pace, insegnaci a costruire
fraternità e amicizia;
sapienza mite, infondi in noi forza e pazienza,
per vincere il male con il bene;
sapienza piena di misericordia, vinci la nostra
tentazione di essere indifferenti al soffrire degli altri; sapienza ricca di buoni frutti,
la fiducia in te ci renda perseveranti nel seminare
parole di Vangelo e gesti di amore;
sapienza della croce, la tua Pasqua rinnovi sempre
il dono dello Spirito, per conformarci in tutto a te,
che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen

+ Mario Delpini
Arcivescovo di Milano
Milano 1 febbraio 2021
Memoria del beato
Andrea Carlo Ferrari, vescovo

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