Più di un "don" denuncia l'età più giovane degli animatori e la disaffezione dei ragazzi della scuola media

di Vittorio CHIARI
Redazione Diocesi

Ci sono parole che l’uso logora, svuotandole di significato. Una di queste è “emergenza”, un qualcosa che si manifesta senza grandi preavvisi, in modo imprevedibile. E’ una situazione che preoccupa, spaventa, mette in crisi.
“Emergenza, si lavora sempre in emergenza!… Ci chiedono risposte che non ci sono… Manca il tempo per riflettere… Ne risolvi una, se ne presenta un’altra!.. Si corre, si tampona, sembra sempre di essere in ritardo!”, lamentano i preti dell’Oratorio ma anche gli educatori.

Ho trovato una riflessione di Etty Hillesum, che può aiutare a superare ogni forma di pessimismo ed affrontare con coraggio e speranza ogni emergenza: “A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e diventare fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una risposta vitale”. Siamo in partenza dei rassegnati, degli sconfitti, dei perdenti.

Una lunga introduzione per sottolineare una “emergenza” che si avanza nella nostra esperienza, davvero significativa ed efficace di questi nostri ultimi vent’anni: la realtà dei campi estivi, che impegnano migliaia di animatori e parecchie migliaia di ragazzi delle nostre Diocesi. Più di un “don” denuncia non solo l’età più giovane degli animatori ma anche la disaffezione e la diserzione dei ragazzi e delle ragazze della scuola media, che non si sentono più attratti dai campi estivi: partecipano quelli che già durante l’anno sono stati presenti in oratorio, gli altri invece preferiscono vivere liberi da ogni norma che il progetto oratoriano impone, anche se elementare, a maglie larghe e non strette.

Sono alcuni segni di un cambio che negli anni hanno visto diminuire sempre più l’età degli iscritti all’oratorio: meno giovani, meno adolescenti, meno ragazzi delle scuole medie. Non è ancora un fenomeno generale ma questi segnali ci imporranno una verifica delle nostre proposte, ripartendo dall’esperienza concreta, confrontandosi con realismo, ridando freschezza ai nostri progetti, attualizzandoli alle esigenze dell’oggi.
Una buona fetta di responsabilità ricade sulla fragilità di tanti adulti in famiglia. Si è facili a concedere e difficili ad esigere, spesso ansiosi e preoccupati nel mandare i ragazzi all’oratorio perché all’oratorio ci sono gli stranieri, qualche ragazzo difficile, per cui va protetta “la specie”, tenendola a casa sotto campana di vetro, facendola crescere al di fuori di ogni contesto sociale nel Territorio, dove vive e frequenta scuola.
Forse sono delle scusanti non proprio costringenti. Qualche adulto sembra mettere in discussione il metodo del rapporto capillare, della relazione personale, a tu per tu: essa non tiene più di fronte alla forza del gruppo, all’invasione nella vita dei ragazzi della cultura delle nuove tecnologie, della nuova moda così lontana dalle avventure e dai giochi proposti all’Oratorio.
Già in prima media il ragazzino si sente grande e i grandi non vanno all’oratorio. Quelli di terza media, invece, si sentono adulti. È la generazione della sigaretta, dello spinello, delle festicciole di compleanno, delle prime “bevute”, delle ribellioni e comportamenti “irragionevoli” per gli adulti, sempre più distanti da loro, pronti ad erigere barriere difensive per non bruciarsi ed evitare gli stress che provocano i fallimenti educativi: l’indifferenza alle proposte, la loro passività e la diminuzione del senso appartenenza alla famiglia, alla vita dell’oratorio.

È la sofferenza di alcuni don, che può diventare di molti. Il pericolo è di rinchiudersi nei piccoli gruppi di quelli che corrispondono e lasciar perdere gli altri o di centrare la pastorale giovanile ai ragazzini delle elementari, mentre i problemi diventano sempre più gravi con il crescere degli anni.
Sarebbe forse un andare contro il Vangelo. Ci sono parole che l’uso logora, svuotandole di significato. Una di queste è “emergenza”, un qualcosa che si manifesta senza grandi preavvisi, in modo imprevedibile. E’ una situazione che preoccupa, spaventa, mette in crisi. “Emergenza, si lavora sempre in emergenza!… Ci chiedono risposte che non ci sono… Manca il tempo per riflettere… Ne risolvi una, se ne presenta un’altra!.. Si corre, si tampona, sembra sempre di essere in ritardo!”, lamentano i preti dell’Oratorio ma anche gli educatori. Ho trovato una riflessione di Etty Hillesum, che può aiutare a superare ogni forma di pessimismo ed affrontare con coraggio e speranza ogni emergenza: “A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e diventare fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una risposta vitale”. Siamo in partenza dei rassegnati, degli sconfitti, dei perdenti. Una lunga introduzione per sottolineare una “emergenza” che si avanza nella nostra esperienza, davvero significativa ed efficace di questi nostri ultimi vent’anni: la realtà dei campi estivi, che impegnano migliaia di animatori e parecchie migliaia di ragazzi delle nostre Diocesi. Più di un “don” denuncia non solo l’età più giovane degli animatori ma anche la disaffezione e la diserzione dei ragazzi e delle ragazze della scuola media, che non si sentono più attratti dai campi estivi: partecipano quelli che già durante l’anno sono stati presenti in oratorio, gli altri invece preferiscono vivere liberi da ogni norma che il progetto oratoriano impone, anche se elementare, a maglie larghe e non strette. Sono alcuni segni di un cambio che negli anni hanno visto diminuire sempre più l’età degli iscritti all’oratorio: meno giovani, meno adolescenti, meno ragazzi delle scuole medie. Non è ancora un fenomeno generale ma questi segnali ci imporranno una verifica delle nostre proposte, ripartendo dall’esperienza concreta, confrontandosi con realismo, ridando freschezza ai nostri progetti, attualizzandoli alle esigenze dell’oggi. Una buona fetta di responsabilità ricade sulla fragilità di tanti adulti in famiglia. Si è facili a concedere e difficili ad esigere, spesso ansiosi e preoccupati nel mandare i ragazzi all’oratorio perché all’oratorio ci sono gli stranieri, qualche ragazzo difficile, per cui va protetta “la specie”, tenendola a casa sotto campana di vetro, facendola crescere al di fuori di ogni contesto sociale nel Territorio, dove vive e frequenta scuola. Forse sono delle scusanti non proprio costringenti. Qualche adulto sembra mettere in discussione il metodo del rapporto capillare, della relazione personale, a tu per tu: essa non tiene più di fronte alla forza del gruppo, all’invasione nella vita dei ragazzi della cultura delle nuove tecnologie, della nuova moda così lontana dalle avventure e dai giochi proposti all’Oratorio. Già in prima media il ragazzino si sente grande e i grandi non vanno all’oratorio. Quelli di terza media, invece, si sentono adulti. È la generazione della sigaretta, dello spinello, delle festicciole di compleanno, delle prime “bevute”, delle ribellioni e comportamenti “irragionevoli” per gli adulti, sempre più distanti da loro, pronti ad erigere barriere difensive per non bruciarsi ed evitare gli stress che provocano i fallimenti educativi: l’indifferenza alle proposte, la loro passività e la diminuzione del senso appartenenza alla famiglia, alla vita dell’oratorio. È la sofferenza di alcuni don, che può diventare di molti. Il pericolo è di rinchiudersi nei piccoli gruppi di quelli che corrispondono e lasciar perdere gli altri o di centrare la pastorale giovanile ai ragazzini delle elementari, mentre i problemi diventano sempre più gravi con il crescere degli anni. Sarebbe forse un andare contro il Vangelo.

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