Sempre più ragazzi "crescono" da soli, rischiando l'abbandono affettivo che spesso�si traduce in abbandono educativo. Di qui l'appello agli adulti a una maggiore responsabilità e l'invito a rilanciare l'oratorio inteso come vera e propria "scuola di vita"�

di Vittorio CHIARI
Redazione Diocesi

«Diminuire il numero dei discoli, che abbandonati a se stessi corrono grande pericolo di andare a popolare le prigioni. Istruire costoro, avviarli al lavoro� queste opere, dico, non possono non essere rispettate, anzi desiderate da qualsiasi governo, da qualsiasi politica». Sono le parole con le quali di don Bosco, ha spiegato il nascere dei suoi oratori, delle sue scuole professionali. Ieri i discoli erano i ragazzi della strada, oggi sono anche quelli delle cosiddette famiglie normali, quei ragazzi e ragazze che soffrono l�abbandono affettivo, che si traduce quasi sempre in un abbandono educativo.

La Chiesa Italiana richiama con forza l’educare in questi dieci anni, che ci sono davanti, richiamando gli adulti, «sempre più rinchiusi nei loro ritmi vertiginosi e incapaci ormai di raccontare qualcosa di importante» ai giovani che «sprovvisti di interlocutori in grado di orientare nel vortice delle possibilità che si moltiplicano loro anche per effetto della tecnologia». Così si rivolgeva il cardinal Bagnasco ai Superiori religiosi, riuniti in assemblea a Milano, sul tema dell’emergenza educativa.

Citava Benedetto XVI che richiamava gli adulti ad avere «quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità. Essa è frutto di esperienza e di competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero».

Il cardinal Bagnasco, ricordando l’importanza degli ambienti educativi, citava Don Bosco che aveva fatto della scuola e dell’oratorio un ambiente educante, che ha dato risultati significativi nel tempo. Per noi cresciuti in oratorio, preti del cortile, ha fatto molto piacere quanto riconosciuto da parte del presidente della Cei, che ha parlato non solo a livello personale, ma riportando “la voglia di oratorio”, presente in tantissimi Vescovi che non ne hanno nelle loro Diocesi.

Comunque lo si interpreti, per il cardinal Bagnasco, l’Oratorio è «un luogo �dove trovarsi’, �conoscersi’, �far qualcosa insieme’, dove educarsi ai valori spirituali; un ambiente dove appartenersi e richiamarsi al di là dei luoghi istituzionale (casa, scuola, chiesa) o dei non-luoghi (strada�), soprattutto un luogo dove poter esprimere la propria condizione giovanile, il senso della vita, in una condizione di libertà cosciente, di spontaneità propositiva, di affermazione di sé».

In modo più semplice, la gente contadina di cinquant’anni fa per descrivere l’oratorio richiamava tre elementi essenziali: “un prà, un un prét, un cès”, un dialetto valtellinese, comprensibili a tutti. Certo oggi, dice sempre il Cardinale, la proposta va pensata e compiutamente realizzata: non basta più un prato, neppure un prete o i servizi essenziali, ci vuole qualcosa di più, anche se fondamentale è sempre il prete, cuore ed anima dell’oratorio. Oggi si richiede l’operosa collaborazione di un buon gruppo di laici, giovani e adulti, che stiano con i ragazzi, garantendo una presenza educativa, quando l’oratorio è aperto. Mancando, è meglio tenerlo chiuso.

Giovanni Paolo II, anni fa, invitava appunto i giovani di Roma a rilanciare «gli oratori, adeguandoli alle esigenze del tempo, come ponti tra la chiesa e la strada, con particolare attenzione a chi è emarginato e attraversa momenti di disagio o è caduto nelle maglie della devianza od della delinquenza».

Anche il Sinodo milanese si è interrogato sugli oratori e ha dedicato buon spazio alla pastorale giovanile. Mentre richiede «l’irrinunciabile attenzione alla totalità della popolazione giovanile che vive nel suo territorio», indica l’oratorio come «strumento privilegiato e prioritario con cui svolgere l’impegno educativo della parrocchia nei confronti di tutta la popolazione giovanile, presentando l’oratorio come luogo di accoglienza di ogni fanciullo, ragazzo, adolescente e giovane, che vive nell’ambito della parrocchia, chiarendo allo stesso tempo che “l’adesione ad associazioni, gruppi e movimenti riguarda solo una parte della popolazione giovanile che ne accetta le modalità ed i cammini».

I Salesiani, nel loro cammino di rinnovamento, hanno descritto l’oratorio come «casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi tra amici e vivere in allegria». In Diocesi di Reggio Emilia, il Sinodo suggeriva la creazione di oratori per i ragazzi e giovani senza parrocchia, che osno sempre più numerosi nelle nostre città e paesi.

Concludendo il suo discorso ai Superiori religiosi, il cardinal Bagnasco illustrava quattro obiettivi dell’oratorio: vivere la spiritualità come dimensione ordinaria della vita; immersione nella cultura e nella storia del tempo: non isola felice, ma inserito nel territorio; apertura al sociale e cura della dimensione ludica, che non va assolutizzata ma nemmeno minimizzata, perché può essere una vera “scuola di vita”. Ci vuole genio e gusto educativo. Chi ce l’ha, ha l’occasione per metterlo in pratica. «Diminuire il numero dei discoli, che abbandonati a se stessi corrono grande pericolo di andare a popolare le prigioni. Istruire costoro, avviarli al lavoro� queste opere, dico, non possono non essere rispettate, anzi desiderate da qualsiasi governo, da qualsiasi politica». Sono le parole con le quali di don Bosco, ha spiegato il nascere dei suoi oratori, delle sue scuole professionali. Ieri i discoli erano i ragazzi della strada, oggi sono anche quelli delle cosiddette famiglie normali, quei ragazzi e ragazze che soffrono l�abbandono affettivo, che si traduce quasi sempre in un abbandono educativo. La Chiesa Italiana richiama con forza l’educare in questi dieci anni, che ci sono davanti, richiamando gli adulti, «sempre più rinchiusi nei loro ritmi vertiginosi e incapaci ormai di raccontare qualcosa di importante» ai giovani che «sprovvisti di interlocutori in grado di orientare nel vortice delle possibilità che si moltiplicano loro anche per effetto della tecnologia». Così si rivolgeva il cardinal Bagnasco ai Superiori religiosi, riuniti in assemblea a Milano, sul tema dell’emergenza educativa. Citava Benedetto XVI che richiamava gli adulti ad avere «quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità. Essa è frutto di esperienza e di competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero».Il cardinal Bagnasco, ricordando l’importanza degli ambienti educativi, citava Don Bosco che aveva fatto della scuola e dell’oratorio un ambiente educante, che ha dato risultati significativi nel tempo. Per noi cresciuti in oratorio, preti del cortile, ha fatto molto piacere quanto riconosciuto da parte del presidente della Cei, che ha parlato non solo a livello personale, ma riportando “la voglia di oratorio”, presente in tantissimi Vescovi che non ne hanno nelle loro Diocesi.Comunque lo si interpreti, per il cardinal Bagnasco, l’Oratorio è «un luogo �dove trovarsi’, �conoscersi’, �far qualcosa insieme’, dove educarsi ai valori spirituali; un ambiente dove appartenersi e richiamarsi al di là dei luoghi istituzionale (casa, scuola, chiesa) o dei non-luoghi (strada�), soprattutto un luogo dove poter esprimere la propria condizione giovanile, il senso della vita, in una condizione di libertà cosciente, di spontaneità propositiva, di affermazione di sé».In modo più semplice, la gente contadina di cinquant’anni fa per descrivere l’oratorio richiamava tre elementi essenziali: “un prà, un un prét, un cès”, un dialetto valtellinese, comprensibili a tutti. Certo oggi, dice sempre il Cardinale, la proposta va pensata e compiutamente realizzata: non basta più un prato, neppure un prete o i servizi essenziali, ci vuole qualcosa di più, anche se fondamentale è sempre il prete, cuore ed anima dell’oratorio. Oggi si richiede l’operosa collaborazione di un buon gruppo di laici, giovani e adulti, che stiano con i ragazzi, garantendo una presenza educativa, quando l’oratorio è aperto. Mancando, è meglio tenerlo chiuso. Giovanni Paolo II, anni fa, invitava appunto i giovani di Roma a rilanciare «gli oratori, adeguandoli alle esigenze del tempo, come ponti tra la chiesa e la strada, con particolare attenzione a chi è emarginato e attraversa momenti di disagio o è caduto nelle maglie della devianza od della delinquenza». Anche il Sinodo milanese si è interrogato sugli oratori e ha dedicato buon spazio alla pastorale giovanile. Mentre richiede «l’irrinunciabile attenzione alla totalità della popolazione giovanile che vive nel suo territorio», indica l’oratorio come «strumento privilegiato e prioritario con cui svolgere l’impegno educativo della parrocchia nei confronti di tutta la popolazione giovanile, presentando l’oratorio come luogo di accoglienza di ogni fanciullo, ragazzo, adolescente e giovane, che vive nell’ambito della parrocchia, chiarendo allo stesso tempo che “l’adesione ad associazioni, gruppi e movimenti riguarda solo una parte della popolazione giovanile che ne accetta le modalità ed i cammini». I Salesiani, nel loro cammino di rinnovamento, hanno descritto l’oratorio come «casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi tra amici e vivere in allegria». In Diocesi di Reggio Emilia, il Sinodo suggeriva la creazione di oratori per i ragazzi e giovani senza parrocchia, che osno sempre più numerosi nelle nostre città e paesi. Concludendo il suo discorso ai Superiori religiosi, il cardinal Bagnasco illustrava quattro obiettivi dell’oratorio: vivere la spiritualità come dimensione ordinaria della vita; immersione nella cultura e nella storia del tempo: non isola felice, ma inserito nel territorio; apertura al sociale e cura della dimensione ludica, che non va assolutizzata ma nemmeno minimizzata, perché può essere una vera “scuola di vita”. Ci vuole genio e gusto educativo. Chi ce l’ha, ha l’occasione per metterlo in pratica.

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