La formazione del Consiglio d’amministrazione non può ridursi a un balletto

di Marco DERIU

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Possono essere eletti membri del Cda della Rai «i soggetti aventi i requisiti per la nomina a giudice costituzionale», ossia: i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinarie e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo vent’anni di esercizio. Ma anche «persone di riconosciuto prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti che si siano distinte in attività economiche, scientifiche, giuridiche, umanistiche o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali».

Basterebbe questa enunciazione di legge – tratta dall’articolo 49 comma 4 del Testo Unico della Radiotelevisione – per impedire gli indecorosi balletti di nomi e (auto)candidature cui si assiste puntualmente in vista di ogni rinnovo del Consiglio di amministrazione della tv di Stato italiana, un copione che sì è ripetuto anche nei giorni scorsi. E basterebbe scorrere l’elenco dei “nominati” degli ultimi lustri per capire se e quanto i dettami di legge siano stati rispettati…

Secondo la legge 206/25 giugno 1993 la Rai è una società per azioni di interesse nazionale e, in quanto tale, è soggetta a una disciplina di governance che dovrebbe tutelare la peculiarità di una simile impresa. Secondo quanto stabilito dalla Legge Gasparri (L. 112 del 3/05/2004), il Consiglio di amministrazione non è nominato esclusivamente dagli azionisti: sette consiglieri vengono eletti dalla Commissione parlamentare di Vigilanza, due vengono indicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che è il maggiore azionista della tv di Stato italiana. Tra i consiglieri di sua nomina, il Ministero dell’Economia e delle Finanze indica il Presidente del Cda, che per insediarsi deve ottenere un voto di gradimento da almeno due terzi dei membri della Commissione parlamentare di vigilanza. Il Consiglio d’amministrazione vota poi il Direttore generale, che ha sempre un mandato di tre anni rinnovabile, ed è anch’esso di nomina del Ministro dell’Economia.

Nelle scorse settimane il premier Mario Monti, in qualità anche di Ministro delle Finanze ad interim, aveva designato per la Presidenza e per la Direzione generale della Rai rispettivamente Anna Maria Tarantola, vicedirettore generale della Banca d’Italia, e Luigi Gubitosi, ex amministratore delegato di Wind. Lo stesso Monti aveva poi indicato quale rappresentante del Ministero dell’Economia nel Cda Marco Pinto, dicendosi impegnato a sostenere «modifiche di governance» ai vertici della Rai. In quest’ottica, aveva invitato espressamente «le forze politiche e il Parlamento» ad «adottare criteri elevati di professionalità e indipendenza per individuare gli altri membri del Cda».

Essendo la composizione della Commissione parlamentare di Vigilanza strettamente proporzionale ai rapporti fra maggioranza in carica e opposizione, anche la nomina degli altri consiglieri diventa puntualmente una questione puramente politica. Il presidente Sergio Zavoli nei giorni scorsi aveva dichiarato che sarebbero state prese in considerazione anche le autocandidature e i curricula professionali di chi si fosse ritenuto pronto per far parte di un organismo che ha poteri delicati e importanti sulla gestione e la programmazione dell’offerta della televisione di servizio pubblico. Ma i partiti non hanno affatto rinunciato a seguire solite logiche spartitorie.

Il centrodestra che ha la maggioranza parlamentare ha indicato i suoi prediletti, l’Idv di Antonio Di Pietro ha detto che non avrebbe partecipato alla spartizione, il Pd di Pierluigi Bersani dapprima ha fatto sapere che non avrebbe indicato alcun nome, poi sul filo di lana ha chiesto ad alcune associazioni rappresentative della società civile di indicare due candidature. Questi ultime sarebbero state “sostenute” dal suo partito, secondo una procedura che, indirettamente, conferma la nomina “politica” e la scarsa autonomia della Commissione nella effettiva scelta ma, se non altro, costituisce una sorta di apertura, seppur sui generis.

Fra i nomi indicati o sostenuti dalle forze politiche, alcuni stupiscono per la scarsa consistenza dei propri curricola rispetto a quanto la legge ricordata in apertura richiederebbe, altri sono ben noti per la loro simpatia politica e non sembrano in grado di garantire indipendenza. Ma tant’è.

In questo sistema politico – e con la diffusa concezione di un servizio pubblico da piegare alle maggioranze politiche o a interessi più o meno privati – sarebbe illusorio immaginare un Cda Rai davvero indipendente e capace di tutelare l’interesse collettivo, il pluralismo dell’informazione e un’offerta televisiva di qualità. Ma abbiamo comunque il dovere di non perdere la speranza in un’inversione di tendenza.

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