La stampa ha un futuro se offre una lettura corretta dei fenomeni complessi. Ne parliamo con Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano
di Pino NARDI
I media hanno ancora un ruolo decisivo se riescono «a sottrarre al flusso dell’informazione – che travolge implacabilmente ogni notizia rendendo brevissimo il suo ciclo di vita a prescindere dalla sua rilevanza – i temi e gli avvenimenti che meritano un’attenzione non episodica. Una contestualizzazione che solo la stampa tradizionale può offrire, con l’apertura di prospettive che si sgancino dalla dittatura della contingenza». Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano, riflette sui mezzi di comunicazione vecchi e nuovi e sulla responsabilità dei cittadini lettori.
Nel suo messaggio per la recente Giornata diocesana di Avvenire, il cardinale Scola invitava il lettore a informarsi correttamente. È una prospettiva “nuova” che stimola alla responsabilità del singolo e non solo dei giornalisti?
Rispondo con il riferimento a un concetto, formulato recentemente dal filosofo Luciano Floridi, che mi pare utile per ripensare il nostro rapporto con l’informazione: quello di “infosfera”. Noi viviamo in un mondo dove la produzione, lo scambio, la gestione delle informazioni è sempre più cruciale per la qualità della nostra vita. E le informazioni non sono solo quelle prodotte dai media, ma anche quelle messe in circolo da noi per esempio attraverso i nostri gesti quotidiani o la distanza che teniamo dalle altre persone. E perfino quelle che riceviamo dalle cellule e dagli organismi: il Dna, per esempio, non è che una stringa di informazioni. Quindi da un lato dobbiamo metterci nelle condizioni di accedere all’informazione ed esigere che sia disponibile e attendibile. Dall’altro dobbiamo essere consapevoli che noi stessi emettiamo continuamente informazioni, non solo quando usiamo Facebook o lo smartphone, e che ogni nostro anche piccolo comportamento, sia pubblico sia privato, contribuisce al benessere o al malessere della infosfera. Questo sollecita la nostra responsabilità e il nostro senso dell’etica, cioè di una vita buona nell’era digitale.
Cattiva informazione: è inevitabile il successo di chi urla di più e di chi fa comunicazione emotiva e superficiale? Vale sempre la giustificazione classica che è questo che vuole il lettore?
Credo veramente che questo gioco a scaricare le responsabilità sia inaccettabile. Il giornalista ha responsabilità e, almeno in teoria, ha più strumenti dei suoi lettori e può accompagnarli, anziché semplicemente assecondarli. Ha il dovere di allargare l’orizzonte dei possibili interessi, anziché rincorrere e confermare ciò che più sollecita le curiosità spesso più banali. Di scommettere sulla qualità, anziché inseguire i grandi numeri nel modo più facile e sicuro. Il successo di chi urla non è affatto scontato. E poi si misura su un periodo un po’ più lungo dell’istante immediato, e con criteri che vanno al di là dei numeri.
Buona informazione e impegno per il bene comune è un binomio stretto. In una stagione di grave crisi di credibilità della politica, i media come possono contribuire a capire meglio la realtà complessa?
In questo momento sono abbastanza sfiduciata dai media, che sempre più tendono a diventare amplificatori di voci selezionate, luoghi dove si consumano battaglie di potere a colpi di metacomunicazione, veicoli di messaggi che significano cose diverse da quelle che dicono. Il bene comune rischia di diventare una bandiera da sventolare per ottenere consenso, da esibire quando coincide con gli interessi dell’una e dell’altra parte, salvo poi metterlo da parte senza problemi quando si tratta di decidere come agire.
Quindi un atteggiamento da rivedere…
Diciamo che il bene comune alimenta più le retoriche che le politiche. E che i media negli ultimi anni hanno dato il loro contributo a questa deriva, che non esito a definire nichilista. Credo che in questo momento i media possano contribuire a superare la crisi della politica, e della cultura in senso più lato, solo se si capisce che il vecchio modello, che ha funzionato fino a ieri, è ormai perdente; e che è prima di tutto nel loro interesse, oltre che in quello della collettività, l’impegno a riformulare il proprio ruolo in una infosfera dove la rete riveste un’importanza crescente (basta vedere la diffusione degli smartphones nell’ultimo anno). Un ruolo che, se svolto con responsabilità, può rivelarsi insostituibile: per esempio, rispetto alla possibilità di riconnettere i frammenti di quella comunità simbolica che è la nazione, che nella frammentazione e disaggregazione della Rete rischia di sciogliersi fino a scomparire. Se invece, come ormai sempre più spesso accade, la stampa tradizionale si limita a fare l’aggregatore di notizie già disponibili in Rete, è votata all’irrilevanza e a un ritardo cronico.
I social media aiutano ad essere più consapevoli e favoriscono la partecipazione?
Personalmente sono contraria a ogni forma di determinismo tecnologico, e dunque anche all’idea che siano i social media a produrre partecipazione. Piuttosto vedo la svolta social del web 2.0 come il frutto di un desiderio che è riuscito a piegare il medium per “costringerlo” a rispondere a bisogni antropologici fondamentali, come il superamento dell’individualismo e il desiderio di condivisione. Che, certamente, alimenta anche la consapevolezza e offre nuove occasioni e nuovi territori per essere non solo consumatori di informazione, ma “cercatori”, come diceva McLuhan, e produttori, in quanto testimoni che possono esprimere la loro voce».
Quale ruolo possono svolgere le testate di ispirazione cristiana?
Fondamentale. Per aumentare il pluralismo, anche per chi non è credente; per leggere con libertà i segni dei tempi per chi lo è.