Nel suo messaggio per la 48a giornata mondiale delle comunicazioni sociali papa Francesco ci propone una rivoluzione copernicana: «La comunicazione è, in definitiva, una conquista più umana che tecnologica»

di Chiara GIACCARDI

papa francesco
Pope Francis waves as he driven through the crowd during his general audience, in St. Peter's Square, at the Vatican, Wednesday, March 27, 2013. (AP Photo/Gregorio Borgia)

Nel suo messaggio per la 48a giornata mondiale delle comunicazioni sociali, domenica 1 giugno (“Comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro”) papa Francesco ci offre almeno tre indicazioni preziose: una epistemologica, una ontologica e una metodologica.

La prima riguarda le “condizioni di pensabilità” della comunicazione oggi. Pensiamo per esempio al web: la maggior parte delle riflessioni si collocano o sul versante del pessimismo (cosa la tecnica ci ha tolto) o su quello dell’euforia (la tecnica come soluzione di ogni problema). Entrambe sono in parte vere e in parte sbagliate: ma è impossibile uscire dall’alternativa apocalittici/integrati se si resta dentro il paradigma della tecnica.

Quella che invece papa Francesco ci propone è una rivoluzione copernicana che ci libera dalle false alternative, e che tra l’altro può (e dovrebbe) essere estesa ad altri campi che si stanno sempre più “tecnicizzando”: dall’economia alla politica e persino all’istruzione.

L’affermazione cruciale è la seguente: «La comunicazione è, in definitiva, una conquista più umana che tecnologica». Ritornare dal piano tecnologico a quello antropologico significa valorizzare la tecnica («le meravigliose opere dell’ingegno umano», Inter Mirifica, 1) senza però assolutizzarla: tenendo presente, cioè, che «la tecnica non è mai solo tecnica» (Caritas in Veritate, 69). Spostarsi dal tecnologico all’antropologico apre allora nuovi orizzonti di comprensione.

E qui veniamo al secondo punto: il messaggio ci dice qualcosa su “chi è l’uomo”, sulla sua ontologia. Possiamo riassumerlo così: l’uomo ė un essere comunicante, e la comunicazione si realizza nella prossimità. Se l’uomo è a immagine del suo creatore, e se Dio è trinità (ovvero comunione nella differenza), e se il Padre si comunica nel Figlio, che a sua volta dà sé stesso per noi, allora la comunicazione non è un’azione tra le tante, ma il modo di stare in relazione che più di ogni altro esprime la nostra umanità. «La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri» (Lumen Fidei 38). Noi, allora, non “facciamo” comunicazione: “siamo” comunicazione.

Ma non tutto ciò che viene chiamato con questo nome contribuisce veramente alla pienezza umana. Per orientarsi papa Francesco ci presenta un’icona, quella del Samaritano, che già Paolo VI aveva indicato come paradigma della spiritualità del Concilio Vaticano II. Questa immagine ci dice che comunicare è prima di tutto incontrare, e che la stessa fede nasce dall’incontro.

Attraverso l’icona del samaritano ci viene offerto un metodo: la prima mossa della comunicazione non è il messaggio, ma l’incontro. Un incontro che trasforma il lontano in prossimo, riducendo le distanze, anche e soprattutto quelle simboliche: quanti muri invisibili costruiamo ogni giorno, che ci impediscono di vedere gli altri! Un po’ come il sacerdote e il levita, che pur guardando il ferito non lo vedono, tutti presi dal proprio ruolo, dalle proprie attività, dalle convenzioni sociali che rendono lontani anche i vicini.

L’incontro, come lo definiva Romano Guardini, è un «inizio vivo», un momento di reciprocità e novità per tutti. È una parola-chiave, molto legata a un’altra, anch’essa cruciale nel vocabolario pastorale di Papa Francesco: la misericordia («La misericordia è la più grande di tutte le virtù», EG 37).

L’incontro ė un volto-a-volto e un cuore-a-cuore. Incontro se mi lascio toccare il cuore, che è sempre un po’ indurito o almeno addormentato, e lascio che si intenerisca: e allora comincio a cambiare. In fondo ogni incontro è una piccola o grande con-versione: infatti per poter andare incontro all’altro si cambia strada, proprio come fa il samaritano.

Si può toccare l’altro («se non lo hai toccato non lo hai incontrato», aveva detto papa Francesco a proposito del povero) solo se prima ci si è lasciati toccare il cuore da lui. Così ci si può avvicinare, ed è questa riduzione di distanze nella sollecitudine il messaggio più importante. L’incontro è insieme medium (senza avvicinarmi non posso comunicare) e messaggio (“sono con te”): solo allora siamo credibili nelle nostre parole, perché il messaggio più importante lo abbiamo già trasmesso.

Farsi prossimo: perché il prossimo non è una categoria sociale, ma l’altro che ci interpella. Siamo noi che “ci facciamo prossimo”. Ricordiamo che Gesù nella parabola ribalta la domanda «chi è il mio prossimo?» in «chi si è fatto prossimo?».

La comunicazione, allora, che non è un atto, ma una relazione che ci costituisce come esseri umani, passa dai cuori prima che dalle menti, dai gesti e non solo dalle parole. E l’incontro diventa anche condizione della fede: «La fede è un incontro con Gesù, e noi dobbiamo fare la stessa cosa che fa Gesù: incontrare gli altri» (veglia Pentecoste 18/5/2013).

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