Alcune riflessioni in vista dell’incontro del cardinale Scola con i giornalisti e gli operatori della comunicazione che si terrà sabato 28 gennaio a Milano in occasione della festa del loro patrono

di Giorgio ACQUAVIVA
Presidente Ucsi Lombardia

Giorgio Acquaviva

C’è un’interessante serie di “segni” nell’appuntamento di quest’anno in occasione della ricorrenza di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, lui stesso vescovo-comunicatore nella Ginevra calvinista, scrittore e predicatore orientato a sanare le fratture religiose e politiche in un tempo (il XVI secolo) difficile per l’Europa cristiana. E segno è innanzitutto l’insistenza con cui nel manifesto dell’incontro si fa riferimento al “dialogo”, che – quando è bene inteso – rappresenta un metodo prezioso e fruttuoso nelle relazioni interpersonali e sociali.

L’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, dunque, sabato 28 gennaio dialogherà con il direttore de Il Sole 24 Ore Roberto Napoletano e con i giornalisti presenti, sul tema – ecco ancora quel termine – “Dialogo sul giornalismo e la comunicazione”. Ciò vuol dire davvero mettersi in gioco fino in fondo, e non limitarsi a esprimere pareri tecnici o di marketing, o dedicarsi a lamentele e prediche su ciò che non va o sul “da farsi”. Il fatto poi che l’evento si svolga all’Istituto dei ciechi di via Vivaio, aggiunge un ulteriore “segno” forte allo sforzo a cui tutti i presenti saranno chiamati. Perché tutti – individui o istituzioni, operatori e fruitori – siamo a rischio di cecità nei confronti della verità, della onestà e del rispetto.

Ma non basta, perché proprio mentre si svolgerà l’incontro di Milano, a Caserta sarà in corso il XVIII Congresso nazionale dell’Ucsi (Unione cattolica stampa italiana), l’associazione dei giornalisti cattolici che quest’anno punta l’attenzione su un tema cruciale: “La credibilità dell’informazione in Italia: verso un giornalismo di servizio pubblico”. Anche da qui arriveranno segnali grandi di consapevolezza e di responsabilità. L’informazione nel nostro Paese, infatti, si sta giocando in questi anni la residua credibilità e l’Ucsi prova a lanciare una parola d’ordine che coglie appieno il cuore del discorso: tutto il giornalismo, e non solo quello targato Rai, deve acquistare coscienza di essere “servizio pubblico”.

Credibilità, si diceva. Può darsi che il giornalismo italiano sconti una eredità di parzialità e approssimazione che spesso quello esercitato in altri Paesi europei o nordamericani non ha. Ma attenzione, non è sempre così. Perché a parte la circostanza che esiste (e prospera) un giornalismo scandalistico in Inghilterra e Germania, così come esiste quello gretto di tanta parte della Francia, o quello autoreferenziale della vasta provincia statunitense, non è vero che, almeno sui maggiori quotidiani della Penisola o su alcune reti televisive (magari con grande fatica), non si facciano inchieste o approfondimenti di qualità. Anzi. Non c’è solo la caccia al “mostro di Avetrana”, ci sono anche i reportage sui vari scandali, su corruttori e corrotti, sui costi della politica, sugli amici degli amici, sulle scalate misteriose e le cordate criminose, le cosche che si insediano in territori insospettati, le ordinarie evasioni fiscali…

È piuttosto vero che mancano due elementi che – come Ucsi Lombardia – abbiamo già segnalato altre volte. Il primo è la scarsa educazione del pubblico a ragionare, distinguere e giudicare. Non ha ancora sufficiente diffusione un pur augurabile movimento di utenti che reagisca di fronte a veri eccessi dei media, come casi di razzismo o di mancato rispetto della dignità della persona. Il secondo riguarda invece un’altra parte che è pesantemente coinvolta nella “fattura” dei giornali e dei format televisivi. E sono gli editori. Cosa ne pensano di demolire l’idolo del successo a ogni costo (copie e/o share) e badare di più alla qualità dell’informazione? La tendenza in altri Paesi è di una ripresa cospicua di vendite da parte di giornali che hanno investito in informazione rigorosa e di alta qualità. Ma che credibilità hanno gli editori che hanno tenuto bloccato per oltre quattro anni il contratto giornalistico e che preferiscono pagare i freelance con compensi inferiori a quelli di una colf?

Credibilità, dunque, che coinvolga tutti gli attori (giornalisti-editori-utenti) e dopo i mea culpa e le strigliate ben vengano gli strumenti di formazione tecnica e deontologica, magari permanente, che consentano davvero un salto di qualità verso la realizzazione di un sistema di informazione e comunicazione realmente “servizio pubblico”, a servizio cioé dell’intera comunità nazionale, e oltre.

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