Nella ricorrenza del patrono dei giornalisti San Francesco di Sales, presso l'Istituto dei ciechi, dialogo tra Domenico Quirico e l'arcivescovo Scola: «il testimone si riconosce nella sofferenza dell'altro»
di Francesca LOZITO
Essere li’. Partecipare al dolore degli altri. Commuoversi. Raccogliere la sofferenza del fratello e provare a raccontarla. E’ un giornalismo "alto", non un’idea astratta, ma una testimonianza concreta quella proposta dall’inviato de La Stampa, Domenico Quirico, che questa mattina ha dialogato con l’Arcivescovo di Milano, Angelo Scola. L’occasione, la ricorrenza del patrono dei giornalisti San Francesco di Sales e il tradizionale appuntamento presso l’Istituto dei ciechi. A moderare la mattinata la giornalista Rai Donatella Negri.
Parte da un episodio capitato al grande Frank Mc Curry Quirico per raccontare il lavoro del giornalista: lo scatto di una foto in un contesto di sofferenza e il conseguente scoppiare in lacrime del fotografo: «Vale anche per i giornalisti: se non partecipo a quel dolore – dice Quirico – non posso raccontarlo. E’ nella commozione – aggiunge – che nasce la mia titolarità a raccontare le storie degli altri uomini». Alla domanda che si può porre all’inviato di guerra dice ancora il giornalista de La Stampa: «Tu dov’eri quando altri uomini volevano uccidermi? Io non posso rispondere che non ero li. Devo dire invece: io ero li con te. La tua stessa paura è stata la mia paura, il mio dolore, la tua stessa sofferenza e’ – seppure solo in parte – la mia. In quel momento io posso scrivere di te. Altrimenti non ho quel diritto».
Ed è di certo spiazzante, lontana anni luce dallo stereotipo del cronista freddo e cinico come tanta retorica ha voluto descriverlo l’ammissione di Quirico: «Io lavoro – dice – sulla sofferenza umana.
La materia del mio giornalismo e’ il dolore. E io non posso "mangiare" quel dolore se non sono li con te. Non esiste altra possibilità. Questa e’una necessità».
All’intensità delle parole di Quirico l’arcivescovo Scola allarga lo sguardo dalla dimensione del giornalismo e parla a tutti sottolineando come nel racconto dell’inviato emerga forte l’aspetto della commozione. «Un’esperienza naturale dell’uomo», afferma. «Credo – aggiunge – sia una delle manifestazioni più evidenti della dimensione religiosa insopprimibile di ogni donna e uomo. Inclinazione istintiva ad appassionarci tutti assieme a chi è nella prova. Basta vedere come la gente si mobilita di fronte alle disgrazie e alle sciagure. Il moto naturale della compassione può esistere senza la commozione? No. E se noi siamo diventati duri di cuore – penso soprattutto a noi europei che spesso siamo, come dice Il poeta Eliot ’impagliati’, duri a commuoverci – e’anche perché la compassione non è più costume e non siamo in grado a livello originario di coinvolgerci».
Ma ammonisce l’arcivescovo Scola: «Si può conoscere solo con la testa? No. La conoscenza se non è commossa e sempre separata, astratta». La strada, l’unica da percorrere, dunque, è quella della testimonianza. Con la propria vita, così come descritto nella lettera pastorale ‘Il campo e’il mondo" che Donatella Negri a un certo punto dell’incontro riprende per sottolineare la profonda sintonia tra Quirico e Scola e con una battuta dice «sembra che l’abbiate scritta assieme».
L’appello dell’Arcivescovo e’ dunque quello a spendersi in prima persona, proprio come descritto da Quirico: «In una società plurale come la nostra ci sono tanti punti di vista diversi, la verità è complessa, il nostro limite e’coglierla. Certamente viviamo in un epoca di grande travaglio – biotecnologie, incomprensibilità della finanza, meticciato – questo ci chiama a metterci la faccia. Dobbiamo partire dal nostro quotidiano dal nostro limite, dai nostri affetti e giocarci in prima persona».
Un passo ulteriore lo fa ancora il giornalista-testimone. Sollecitato dalla domanda sul possibile male che può fare indagare per far emergere la verità Quirico risponde: "A un certo punto della mia vita mi sono accorto che il mestiere che esercitavo aveva un rapporto di responsabilità morale con le persone che raccontavo. Il mio rapporto con le parole determinava per il fatto stesso che le raccontavo un rapporto con le persone che raccontavo. C’è un giornalismo che ferma le guerre, come accaduto in Algeria ad esempio. In Siria, invece, il dovere di testimoniare non ha funzionato. Non abbiamo tenuto fede a quel rapporto di responsabilità morale con le persone che raccontavamo. Coscienza vuol dire azione, scelta. In Siria non è diventata commozione. Poi certo ci sono anche le responsabilità delle cancellerie, ma, ribadisco, questo rapporto non ha funzionato".
Questa compartecipazione rischia però di far pagare un prezzo alto anche agli affetti più cari: «Voglio dire con forza – riprende l’inviato de La Stampa – che quello che è successo a me è minimo rispetto alla tragedia di 22 milioni di persone che sono ancora ostaggi, lì. Si’, raccontare il dolore degli altri può provocare dolore in altre persone – famiglia, amici- E in questo c’è una componente di vanità innegabile. La colpa è fare una cosa creando sofferenza in persone che non hanno scelto, indifese. Alla domanda se ne vale la pena io non ho trovato risposta».
La coerenza, la capacità di cogliere la colpa nel suo duplice significato di peccato e di reato – il Cardinale ricorda l’esperienza con i carcerati e il dialogo arricchente su questo tema instaurato con loro – "Cosa fonda l’obbligo morale? – domanda – una trama di relazioni buone che documentano l’abbraccio della verità, della bontà e della bellezza».
Un mestiere di responsabilità quello del giornalista e che ogni giorno e’un nuovo inizio: «Il giornalismo è un continuo fare e disfare, tutti i giorni si ricomincia ed è lì la magia» dice ancora Quirico. E Scola aggiunge: «ma è così per tutti, la vita è una spirale che va verso Dio. Non deve spaventare la ripetizione del quotidiano perché è normale nella nostra finitudine entrare nella profondità del reale passo dopo passo ripetendo i nostri gesti nella dimensione costitutiva del nostro io».
E non avere paura di raccontare la parte sbagliata «anche quella – dice Quirico- ci permette di raccontare una massa di umanità e bontà».
«Questo dialogo – conclude la mattinata l’arcivescovo Scola – e’stato un abbraccio. Un modo per lasciarsi fecondare dall’altro». Insieme, nella commozione.